La periferia che ha fatto della lontananza il suo centro

Settembre 4, 2025 - 22:00
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La periferia che ha fatto della lontananza il suo centro

Professor Marc Augé, quando si fa riferimento allo Zen di Palermo, alla parola “quartiere” si sovrappone e sostituisce immediatamente il termine “periferia”, trasformando questo luogo in paradigma di disagio, perimetro concreto e figurato di narrazioni difficili ed emblematicamente instabili. Le politiche sociali istituzionali, un po’ in tutto il mondo, hanno fatto delle periferie luoghi di indirizzo teorico più che pratico, relegandole a un uso politico, o meglio considerando le periferie uno spazio per promesse che si materializzano in realtà come territorio di conquista, sfruttamento e patteggiamento a fini elettorali. Per quanto riguarda lo Zen, cosa pensa?
Marc Augé: “Lo Zen costituisce una realtà complessa, sovrainvestito, tra l’altro, da esperti e assistenti sociali. Nelle città contemporanee la periferia è una circonferenza, e il centro è da nessuna parte. Un centro immaginato e fantasmaticamente desiderato. Per questo motivo occorre trovare nuove parole, ridefinire un nuovo vocabolario per raccontare questi luoghi. Sicuramente lo Zen raffigura una situazione difficile, complessa.

Nelle banlieues francesi, ad esempio, è forte la componente della multiculturalità, che spesso ha un ruolo centrale nel determinare i momenti di crisi. Certamente, questo non è accaduto negli ultimi scontri parigini, dove l’urgenza era il riconoscimento d’esistenza tout court, al di là delle differenze razziali o economiche. Il caso dello Zen è diverso, perché le persone che lo abitano, in realtà, provengono per la massima parte dalla stessa città. Dunque, non abbiamo visto necessità di rivalsa o competizione dettata da questo elemento. Gli stereotipi presenti allo Zen non sono menzogne né errori,ma conducono a concettualizzazioni che fanno da ostacolo e da schermo a un altro livello di realtà”.

Una realtà che si vuole insabbiare, a quanto sembra. In che rapporto si pone lo Zen rispetto alla sua teoria dei“Nonluoghi”?
M.A. “Lo Zen è agli antipodi di quella teoria, che sottolinea il vuoto e l’impossibilità di comunicazione tra gli individui e la creazione di aeroporti, stazioni, luoghi di passaggio che sono uguali ovunque, a tutte le latitudini, e sempre più diffusi nel contesto della globalizzazione, anzi della omogeneizzazione spaziale. Lo Zen è invece un luogo con un’identità forte e definita, e comunque incentrata profondamente sull’incontro, sulle relazioni. Per chi vi abita, è Palermo il nonluogo”.

Photo by Emanuele Lo Cascio

E invece per ciò che riguarda lo Zen si parla sempre di mancati incontri o difficoltà relazionali attribuendoli alle sue architetture, che hanno avuto vicende complesse. Secondo lei hanno senso questi giudizi? O si tratta di una visione che non ha strettamente a che fare con l’architettura?
M.A. “La città contemporanea ha una sua nuova rappresentatività e rappresentanza. C’è una difficoltà a rappresentare il passato, mentre il sistema globale stravolge le opposizioni spaziali, e ribalta con il suo nuovo policentrismo i sorpassati concetti di esterno e interno. E certamente non è un problema riducibile a una questione architettonica, perché mette insieme elementi molteplici e differenti. Questi cambiamenti, che sono in atto, segnano la creazione della città-mondo, e al contempo creano il mondo-città. E da questo momento, le cose si complicano, la visione cambia completamente”. 

Il concetto di distanza, che si dipana tra geografie e geometrie sociali, sembra dunque aver a che fare sia con la rappresentatività, sia con la rappresentanza; qual è il loro ruolo?
M.A. “Ancora oggi il linguaggio dominante è quello geografico; dunque, si parla sempre di una dicotomia tra Sud e Nord. Ma questa terminologia risulta ormai paradossale, si dovrebbe ripensare in termini di mondializzazione, dove l’estensione del mercato liberale cammina parallelamente a una estensione delle reti tecnologiche. Rappresentando la città, c’è una difficoltà a ripensare il passato. La periferia oggi è una circonferenza senza alcun centro. È un’espressione che definisce un luogo che ha a che fare con il desiderio e la mancanza. Oggi le periferie sono una realtà molto complessa e quella che una volta era la periferia si infiltra nella città, e chiaramente l’opposizione a cui guardiamo adesso non è più geografica, ma essenzialmente sociale. C’è un carico di pregiudizi difficile da dimenticare, che fa sì che tutt’oggi, spazialmente e sociologicamente, si definisca la periferia automaticamente in maniera negativa; è un problema comune a tutte le periferie delle città del mondo, immediatamente percepite come estranee alla città. Eppure, oggi, è proprio dentro le città che si trovano le nuove periferie”.

Photo by Emanuele Lo Cascio

Questa dimensione policentrica ha dunque relativizzato le geografie, trasformandosi presto in discorso economico e sociale, sempre basato sulla relazione tra elementi in opposizione. Crede che ci sia stato un preciso momento storico a determinare questa svolta?
M.A. “Abitiamo un pianeta fragile e minacciato, dove la coscienza planetaria della dimensione sociale vede aumentare sempre più la distanza tra gli estremi della povertà e della ricchezza: poveri più poveri e ricchi più ricchi. Quando si iniziarono a costruire le periferie, tra gli anni Sessanta e Settanta, si pensò inizialmente a un luogo che fosse confortevole per la classe media. Era l’idea de ‘La città radiosa’ di Le Corbusier, dove il nucleo urbano era predisposto in modo tale da sopperire a tutte le necessità, per vivere tranquillamente, quasi senza muoversi. Ma proprio mentre queste nuove tipologie abitative erano in corso di edificazione, accaddero grossi cambiamenti e mutazioni sociali che incisero profondamente sul tessuto sociale, economico, urbano. Stravolgimenti dettati da una forte disoccupazione e una nuova mobilità, della vita e del lavoro”.

Oggi, rispetto a queste necessità differenti, come devono porsi gli architetti?
M.A.“Certamente devono avere una consapevolezza reale dei luoghi di cui si occupano, conoscerli davvero. E pensare in maniera molto concreta alle persone che andranno ad abitare nelle case che loro costruiranno, senza lasciarsi tentare dal progetto in sé”.

Photo by Emanuele Lo Cascio

Tornando allo Zen, queste modalità di progettazione e consapevolezza dei luoghi in che maniera sono rilevabili?
M.A. “Quando si percorrono i luoghi considerati ‘città’, si nota sempre più la presenza di guardie private, luoghi controllati, che pur essendo all’interno di un percorso in realtà non ne fanno parte. Sono comunque realtà esterne, esteriori alla centralità, sono frutto di paura. Sono città con frontiere interne. Quelle periferie osservate con diffidenza, dall’esterno, sono vissute positivamente da chi vi abita. Per alcune persone, la casa, seppur modesta, è giustamente motivo d’orgoglio; ma viste dalle città, per così dire, le periferie come lo Zen e le persone che le abitano vengono sempre considerate negativamente”.

Come definisce la città di oggi in relazione alle periferie?
M.A. “La meta-città globale, dove apparentemente tutto sembra funzionare alla perfezione, lascia il posto alla città-monumento: una visione contemporanea dettata dalla visibilità, che pone l’urgenza di inventare altri luoghi, immediatamente riconoscibili, costruiti probabilmente da celebri architetti che fanno a gara per realizzare l’edificio più alto. La meta-città è l’ideologia di un sistema, mentre la città-mondo è la verità del sistema: al suo interno, nascosti, ci possono essere rifugiati, clandestini, campi profughi. Il processo di globalizzazione è andato avanti ed è avvenuto un processo di omogeneizzazione, ma anche di esclusione, che vede da una parte la concentrazione del potere nelle mani di pochi, e dall’altra la creazione di una massa di consumatori passivi che sono legati a una crescente povertà. Per questo motivo, occorre tenere sempre presenti i concetti di uguaglianza e disuguaglianza”.

Cover Centro senza centro

Tratto da Centro senza centro”, Mimesis, 2025, 152 pp, 15€

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