La promessa di un futuro, tra i ricordi d’infanzia e le mura luminose di Kharkiv

Le mura color crema della stazione di Kharkiv brillano sotto il cielo terso di giugno. La torre dell’orologio si spinge fino a sfiorare le nuvole. Una donna trascina a fatica una grossa valigia sul pavimento lucido dell’ingresso. Masha la osserva allontanarsi e pensa che partire da lì sembra sempre un delitto. Perché qualcuno dovrebbe voler lasciare un luogo così bello? Da adolescente passava tra le colonne corinzie con la chiara percezione che sarebbe stato impensabile non farvi ritorno. I candelabri eleganti che pendono dal soffitto, all’interno di un ingresso degno di un palazzo dell’alta nobiltà, accolgono il viaggiatore suggerendogli che il luogo in cui è appena arrivato non è un qualsiasi posto nel mondo.
Osserva le tenui tonalità pastello scelte per coprire le teste dei pendolari, accanto agli affreschi incastonati negli ovali che fanno pensare a una sala da ballo e che invece decorano il soffitto di una stazione. La porta d’ingresso per ogni viaggiatore diretto a Kharkiv. È passata mille volte da lì prima, tra vacanze lunghe e gite di pochi giorni, evasioni dalla città e avventure dell’ultima ora. Mai però ha trattenuto il fiato così a lungo come adesso, incamminandosi verso i binari, con le cuffie in testa e la musica spenta. La luce estiva filtra dalle vetrate senza imbarazzo.
Le sembra di respirare gioia pura quando finalmente vede i binari. Manca solo il treno. Da bambina le piaceva scendere al fiume insieme alle amiche. A Vovchansk, d’estate, non c’era molto altro da fare se non stendersi sull’erba e cantare a squarciagola le canzoni che la mamma ascoltava alla radio, mentre cucinava. Amava le Spice Girls, ma era stata una voce d’uomo a convincere Masha che cantare fosse il modo migliore inventato dall’umanità per passare il tempo.
“Life is bigger, it’s bigger than you and you are not me. The lengths that I will go to, the distance in your eyes.” Con un braccio planava sui fili d’erba, mentre la luce si infilava tra le palpebre socchiuse e gli schizzi d’acqua delle altre bambine le bagnavano le gambe. Lei, però, continuava a cantare, incurante di tutto.
«Non riesci proprio a stare zitta un attimo, vero?» le chiese una sera di quell’estate la nonna, legandole in due codini alti i capelli ancora umidi per i tuffi al fiume. Masha scosse la testa ridendo e dopo essere sfuggita alla presa della nonna iniziò a danzarle intorno. La nonna allora estrasse da sotto il tavolo un lungo pacco colorato e glielo mise in mano. Il giorno dopo sarebbe stato il nono compleanno di Masha, che non vedeva l’ora di diventare grande per poter salire su un palco e cantare di fronte a migliaia di persone. Masha strinse il pacco e con le dita percepì chiaramente la natura del regalo della nonna. Lo scartò con gli occhi pieni di lacrime e quando le sue mani si poggiarono sul legno della chitarra le guance erano ormai inondate. «Quando si ama la musica, bisogna fare sul serio. Altrimenti rimane solo un passatempo».
La madre di Masha le aveva sempre detto che i capelli scuri e la voce da sirena erano tratti che aveva ereditato direttamente da Marissa, sua nonna paterna. «Vuoi che ti insegni?» Alla nonna, Masha non si sarebbe mai sentita di dire di no. Le sembrava che fosse stata lei a inventare la musica. L’abbracciò stretta per farle sentire quanto le era grata di voler condividere quel talento con lei. Poi però riprese a cantare le canzoni preferite del padre, atteggiandosi con la chitarra e scuotendo i codini corti, per assumere le pose che aveva visto su tante copertine di dischi degli anni Ottanta e Novanta, in casa de suoi. “Every move you make, every smile you fake, every single day: I’ll be watching you.”
Da quella sera, per Masha, la vita si fece densa di impegni. Pesante, per certi versi, ma quanto può esserlo per una bambina di nove anni con una madre e un padre giovanissimi e una nonna decisa a fare di lei la prossima grande cantante lirica della scena musicale ucraina. Come era stato per lei, in gioventù. Marissa ricordava gli anni al conservatorio come i più belli, quelli in cui aveva sognato di seguire l’esempio di Solomija Krushelnytska, soprano lirico-drammatico come lei e, come lei, nata in uno sconosciuto villaggio ucraino, da cui era fuggita per fare il suo debutto sui palcoscenici europei. Una delle arie che Marissa più amava, tra quelle eseguite da Solomija, era Vissi d’arte, dalla Tosca di Giacomo Puccini, insieme alle tante altre esibizioni scaligere della cantante ucraina, a inizio Novecento. Le faceva ascoltare a Masha ogni volta che poteva.
La nonna, però, in Italia o a Parigi non c’era mai stata. La sua carriera si era fermata a Kharkiv. Lì era stata felice, anche se non nascose mai che le sarebbe piaciuto fare le valigie e girare i palcoscenici di tutto il mondo. E invece le era toccato rimanere alla Skhid Opera e poi, quando il marito era morto di tubercolosi, lasciandola sola con un figlio di quindici anni e una carriera congelata sulla rampa di partenza, aveva iniziato a insegnare musica per far quadrare i conti. Per anni aveva fatto di tutto per mantenere il tenore di vita a cui lei e suo figlio Volodymyr si erano abituati. Ma, alla fine, si era rassegnata a lasciare la città per un piccolo paese in campagna, dove una madre sola e un ragazzino che non aveva mai lontanamente immaginato di lavorare prima della maggiore età potevano pensare di arrivare a fine mese. Era lì che Volodymyr aveva conosciuto Svetlana. Ed era lì che era nata Masha.
Quell’estate, dunque, non ci fu giorno in cui, dopo aver aiutato la madre in casa e aver fatto i compiti per la scuola, Masha non si fosse dedicata insieme a Marissa allo studio della musica. La lettura degli spartiti, la storia della musica tradizionale ucraina, le influenze di quella russa, le tecniche di canto, la chitarra e persino il pianoforte, quando Marissa la portava nella biblioteca cittadina a suonare lo strumento messo a disposizione dall’amministrazione locale. La nonna non si stancava mai, Masha invece sì. A com- plicare le cose c’era anche il fatto che, nell’ultimo mese di quell’estate lunghissima, dopo aver preso in mano la chitarra per la prima volta, la vita di Masha cambiò per sempre.
Una sera, suo padre e sua madre la fecero sedere al tavolo della cucina e le parlarono del futuro. «Il sogno di papà sta per diventare realtà: è stato preso all’accademia di aviazione di Kharkiv.»
Tratto da “Il nido di Leleka”, di Martina Toppi, Dominioni Editore, 216 pp, 20€
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