La promessa terapeutica di Neuralink si scontra con rischi di esproprio cognitivo

Il 30 gennaio 2024 il super miliardario americano Elon Musk annunciava al mondo che una delle sue società high-tech, Neuralink, aveva compiuto con successo il primo impianto di un dispositivo elettronico in un cervello umano. Secondo il messaggio, il paziente stava bene e i primi dati mostravano un promettente rilevamento di attività neuronale.
Un’operazione complessa durata due ore, in cui un chirurgo ha effettuato una craniectomia, rimuovendo con un laser a femtosecondi un frammento di cranio grande quanto una moneta da due euro. A questa è seguita mezz’ora di lavoro di un robot per applicare al cervello 1.024 sottilissimi elettrodi collegati al microchip che ha sostituito la porzione di cranio rimossa. Il progetto di collegare in modo diretto cervelli di persone a microprocessori elettronici è lo scopo primario di Neuralink, società fondata nel 2016 assumendo un gruppo di brillanti e affermati scienziati e ingegneri. Il motto aziendale è «ogni giorno costruiamo strumenti migliori per comunicare direttamente con il cervello».
Il cervello umano è costituito da circa 86 miliardi di cellule neuronali connesse tramite sottilissime terminazioni che ne consentono il contatto, le sinapsi. Il numero di sinapsi è enorme, con stime che vanno da centinaia di trilioni a un quadrilione, come dire un milione di miliardi di connessioni. I neuroni comunicano fra loro tramite l’invio e la ricezione di debolissimi segnali elettrici, che attraverso le sinapsi passano da un neurone all’altro. È quello che sta accadendo in questo istante a voi che leggete queste righe. L’idea, semplice in apparenza ma assai complessa sul piano pratico, è quella di sviluppare un impianto cerebrale artificiale che aiuti un individuo a controllare dispositivi tecnologici collegati esternamente, come un computer, un robot, una tastiera, un mouse, il tutto utilizzando esclusivamente l’attività elettrica dei neuroni. Potremmo dire col pensiero, semplificando in modo improprio.
Una tecnologia dirompente che potrebbe aiutare le persone affette da varie forme di disabilità fisica a riacquistare una certa capacità di interagire con il mondo circostante, come camminare controllando un esoscheletro per un paraplegico, o comunicare tramite una neuro protesi per individui scarsamente coscienti o con sindromi che ne bloccano la comunicazione. […]
In genere lo scopo di questi dispositivi è quello di permettere a una persona di «telecomandare» un computer con i soli stimoli cerebrali. Ma una volta stabilito un contatto fra un cervello e un computer, non deve stupire più di tanto che divenga possibile anche il contrario, ossia da un computer trasmettere dei comandi a un cervello. Per quanto sorprendente e inquietante ciò possa sembrare, un primo esperimento in questo senso fu condotto già nel 2002 con la creazione dei robo-rat, o robo-topi diremmo noi (anche se suona molto peggio).
Due ricercatori della State University di New York, Sanjiv Talwar e John Cha pin, impiantarono degli elettrodi nella corteccia sensoriale di alcuni topi. Gli elettrodi erano collegati a uno stimolatore elettrico comandato a distanza, tipo quelli usati per le automobiline telecomandate. Uno degli elettrodi era stato inserito nella zona della corteccia cerebrale responsabile per le sensazioni di piacere. In questo modo, tramite i comandi dati dall’esterno, fu possibile addestrare i topi a fare cose semplici, come andare a destra o a sinistra, o a salire su una scaletta, ma anche cose meno gradite tipo lanciarsi da una certa altezza. La cosa ancora più sorprendente è che ai topolini furono indotte dall’esterno anche sensazioni di piacere e di appagamento, tipo non avere fame, semplicemente attraverso impulsi elettrici. Una tecnologia che sembra aver preso piede, visto che oggi viene offerta come un modo discutibile per ridurre l’obesità.
Tutto questo si basa sul semplice principio che non fa differenza se il segnale elettrico che stimola una certa sensazione proviene da altri neuroni o da sottilissimi elettrodi conduttori di elettricità. Una volta capito quali sono nel cervello i centri responsabili di una data funzione e come attivarli il problema diventa quello di realizzare il collegamento in modo efficace. E qui entrano in gioco Neuralink, e i suoi dispositivi. Nel 2019 Elon Musk pubblicava un articolo scientifico in cui riportava la messa a punto di un piccolo dispositivo impiantabile con 3.072 micro elettrodi in grado di inviare segnali e dati in contemporanea a un sistema ricevente.
Interessante osservazione: l’articolo è a firma del solo Musk, senza che compaiano coautori di sorta. Il che da un lato la dice lunga sull’ego smisurato del personaggio, dall’altro aiuta a mantenere oscuri i nomi di coloro che svolgono effettivamente la ricerca conoscendone i dettagli più strategici. Inoltre, questo articolo è rimasto isolato e su tutta la vicenda resta un alone di mistero, sollevando sospetti e interrogativi nella comunità scientifica. Le principali applicazioni e motivazioni dichiarate dietro questo tipo di sviluppi riguardano ovviamente il settore della salute.
Come detto, un individuo consapevole e cosciente, ma impossibilitato a muoversi o a comunicare verbalmente, potrebbe controllare un computer e usarlo per comunicare. Catturando l’attività neurale associata al linguaggio interiore, o «pensiero verbale», il dispositivo cerebrale impiantato decodifica il linguaggio e lo trasmette a un computer che a sua volta lo traduce in una forma di discorso sintetico. Nessun dubbio che lo sviluppo di impianti cerebrali di questo tipo potrebbe diventare di enorme aiuto per molti pazienti con gravi disabilità. Neuralink prevede di impiantarne più di 20.000 entro il 2030, al costo di 40.000 dollari l’uno.
Eppure, non è questo ad aver attratto l’attenzione dei media quando Elon Musk ha dichiarato gli obiettivi finali della sua attività. In un discorso tenuto nel luglio del 2019, Musk ha spiegato che presto l’uomo sarà superato dall’intelligenza artificiale. È bene ricordare che già nel 2015 Musk aveva firmato una lettera aperta assieme ad altri ricercatori e scienziati per segnalare la minaccia rappresentata dall’intelligenza artificiale. Per ovviare a questo rischio, la soluzione di Musk prevede una cosa molto semplice: fondere l’intelligenza umana con quella artificiale. In questo modo si otterrebbe una ibridazione che potrebbe portare a un nuovo tipo di intelligenza umana superiore all’intelligenza artificiale, con il vantaggio di preservare il libero arbitrio degli individui altrimenti messo a rischio.
È difficile dire, al momento, se questo sia un traguardo realistico, ma una cosa è certa: dopo 200.000 anni questa sarebbe la fine dei sapiens come li conosciamo. Un progetto futuribile non privo di rischi, rischi di cui si sa pochissimo. E che possiamo solo immaginare, o dedurre dalle sparute denunce di ex dipendenti che sotto il vincolo della segretezza hanno parlato di metodi invasivi e dannosi per il cervello degli animali su cui sono state condotte le sperimentazioni. Il tutto in un clima di paura e di segretezza che si respira in azienda, con manager sottoposti a enorme pressione e i dipendenti più giovani incoraggiati a rivolgersi direttamente a Musk per lamentele e denunce. Per non parlare dei rischi di una società fatta di persone con microchip impiantati nel cervello e costantemente connessi alla rete: scenari da incubo, con potenziale controllo di pensieri e azioni, di esistenze sorvegliate, espropriate.
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