La storia dello stilista autore del "secondo Rinascimento italiano"

Settembre 5, 2025 - 18:00
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La storia dello stilista autore del "secondo Rinascimento italiano"

La perdita di Giorgio Armani non rappresenta solo un vuoto incolmabile nella storia della moda, ma nella Storia. Punto e basta. Ha ridisegnato l’Occidente non solo ideando abiti che prima non c’erano, ed è questa la differenza tra creatività e fantasia – «La fantasia è una facoltà capace di immagini che possono essere irrealizzabili. La creatività è una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate e il risultato è sempre realizzabile», scriveva Bruno Munari – ma mettendo in atto un vero e proprio nuovo sistema di vita, comportamenti, idee.

Le radici di Giorgio Armani: il video della sfilata A/I 2025-26

Averlo conosciuto, poterci conversare, è un privilegio di cui andare fieri non tanto per esibizionismo, ma per aver avuto la possibilità di ascoltare di prima mano i suoi pensieri che si strutturavano intorno a una metodologia progettuale precisa e nitida come quella di un architetto, ma nello stesso tempo sensibile e ricettiva come quella di un sociologo che si esprimeva attraverso l’estetica. Un’estetica riconoscibilissima, eppure sostanzialmente semplice, sfrondata da ogni manierismo perché a lui interessava andare al cuore delle cose e soprattutto delle persone che mutano, cambiano, maturano, al passo di una società che conosce ritmi sempre più serrati.

Scusate l’aneddoto personale: quando insegno, tra le prime immagini che mostro ai miei studenti ce ne sono due, contrapposte. La prima è del 1978: sulla copertina del periodico tedesco Der Spiegel, l’Italia è rappresentata da una foto di una pistola su un piatto di spaghetti. La seconda è del 1982: per la seconda volta nella storia (la prima era stata nel 1947 con Christian Dior) uno stilista appare sulla cover di Time Magazine, termometro della popolarità individuale raggiunta a livello mondiale. È un ritratto di Armani, sormontato dal titolo-slogan Giorgio’s Gorgeous Style. E chiedo ogni volta ai miei studenti: «Cos’è successo in quei maledetti/benedetti tre anni? Come mai la percezione dell’Italia è così cambiata, da madrepatria di mafia, terrorismo e malavita a culla di un buon gusto moderno, di un’eleganza contemporanea, di un sofisticato saper vivere che parte dalla moda e dal design per arrivare poi a modificare l’intera esistenza?». Naturalmente, gli studenti restano a bocca aperta, stupiti dalla loro stessa ammirazione.

mostre moda armani milano

Giorgio Armani con le modelle a primavera 2025.

Sismografo puntualissimo e talvolta anticipatore dei tempi, Armani concretizza un universo che darà vita a quel periodo dorato del nostro Paese che Francesco Alberoni chiamerà poi “il secondo Rinascimento italiano”. Aver ascoltato il mondo («i primi blazer li ho realizzati sentendo mia sorella lamentarsi con le amiche per non trovare una giacca maschile, ben fatta ma non da “commendatore”», dirà poi in varie interviste) e non aver proposto una soluzione a un problema, quanto essere già pronto alle nuove richieste di una collettività dove, finalmente, le donne avevano rilevanza anche nel campo del lavoro. «Le génie c’est de prévoir», sosteneva Coco Chanel, forse l’unica figura a lui paragonabile per la rivoluzione antropologica relativa all’abbigliamento nel XX secolo. Il genio della moda è il prevedere.

Quando Giorgio Armani non era ancora Re Giorgio

L’unica cosa che forse non aveva previsto era il deflagrare del suo stile, destinato presto a diventare un aggettivo, come succede solo ai grandissimi dell’immagine: “felliniano”, “almodovoriano”, “armaniano”… Giorgio – anzi, il signor Armani, in trent’anni di conoscenza ci siamo sempre e solo dati del lei – approda al mondo della moda in età, all’epoca, relativamente tarda, poco più che quarantenne: nato a Piacenza nel ’34, al termine del servizio militare, lavora per La Rinascente fino al 1965, anno in cui viene assunto da Nino Cerruti per ridisegnare la moda del brand Hitman, confezione dei vestiti del Lanificio Fratelli Cerruti.

Questa doppia competenza – il saper inventare le cose e la capacità di sapere come farle – per esempio – è la scintilla che realizza il miracolo della dualità del designer, sempre attento alla commercializzazione dei prodotti e alla originalità delle sue previsioni, appunto. Nel ’75 il suo grande amore e socio in affari Sergio Galeotti lo spinge a creare una sua linea: morirà proprio mentre il marchio Giorgio Armani sta per diventare un fenomeno internazionale. Sempre nel ‘75, in un vecchio ristorante milanese di piazza Duomo, il Carminati, presenta la sua prima collezione donna per l’estate ’76. E la giornalista Giusi Ferré ricorda come l’altro grande genio del giornalismo di moda italiano, ebbe a scrivere: «Alla donna in giacca e tuta per l’estate in barca, si alternava un uomo in “abito” di spugna dai colori sgargianti. Mentre da un lato tornava alla ribalta George Sand, dall’altro l’uomo riprendeva la sua natura flamboyant, perduta con il periodo vittoriano». Lgiacca destrutturata, seducente, libera da orpelli, divenuta icona di uno stile unisex, rigorosa ma sexy, sarà il capo più rubato dall’armadio dell’uomo dalle donne, insieme alle scarpe basse stringate.

L’uniforme Armani

In realtà – fa notare Giusi Ferré – “senza neanche esserne consapevole fino in fondo, Armani ha elaborato una doppia operazione: ha inventato per la donna un’uniforme rigorosa di stampo maschile e per l’uomo un modo di vestire che si impossessa di alcune caratteristiche femminili, rivoluzionando materia e struttura, e dunque anche il modo di indossarle”. 

Anche i suoi tessuti sono morbidi per l’uomo e più strutturati per le donne in quei colori quieti, quasi esitanti come il beige che diventa greige, un suo neologismo. Del resto, proprio in quegli anni, filosofi come Jacques Derrida e Michel Foucault cominciano a sviluppare in Europa gli studi di genere, sulla scia di un illuminato pensiero femminista francese come quello di Simone de Beauvoir. Felicemente ambiguo, mirabilmente contraddittorio: è stato il primo a intuire il successo delle seconde linee, dei jeans griffati ma anche del ritorno alla couture con la linea Armani Privé, dei magazine connessi al suo mondo, degli oggetti di design – dai telefoni ai cioccolatini, dai fiori all’arredamento, fino all’hotellerie di lusso e la ristorazione – del rapporto tra moda e cultura pop: musica, sport, cinema. Ma d’altra parte, si è sempre posto in una condizione etica, prima che estetica di essere autore di un linguaggio segnico che aspirasse all’eternizzazione, alla perfezione assoluta, alla “classicità” in senso greco.

Actress Julia Roberts attends the 47th Annual Golden Globe Awards on January 20, 1990 at Beverly Hilton Hotel in Beverly Hills, California. (Photo by Ron Galella, Ltd./Ron Galella Collection via Getty Images)

Julia Roberts con il suo primo Golden Globe vinto nel 1990 per Fiori d’acciaio. Per l’occasione sfoggiò un completo maschile firmato Giorgio Armani dalle proporzioni over.

«Non è un intellettuale, ma gli piace giocare con le idee», dirà di lui il sociologo americano Marshall Blonsky, che lo ha incluso nel suo saggio Mitologie americane. Armani ha incarnato un’opposizione essenziale della moda: la tensione tra la richiesta di novità e il fascino duraturo di un certo stile. L’industria della moda dipende dall’obsolescenza: quei colori acidi che erano nuovi questa primavera sono già bruciati in autunno, mentre gli abiti di Armani sono prevedibilmente sottili, ben proporzionati e lenti fino ad oggi. Non hanno mai gridato per essere notati!

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Del resto, era stato proprio a lui a invitare i suoi colleghi a rallentare i ritmi di un sistema, le cui folli e inutili tempistiche si erano evidenziate durante il primo lockdown dovuto alla pandemia d Covid, in una lettera aperta dove invitava tutti a puntare sulla qualità e la durevolezza anziché sulla ricerca di una sterile “novità” da trovare obbligatoriamente quasi ogni mese. Il mercato, soprattutto quello americano e in particolar modo quello americano, lo ha sempre seguito con dedizione amorevole, con i più importanti divi dello showbiz hollywoodiano che indossavano le sue mise da gran sera proprio perché non offuscavano la loro personalità o il loro carattere, ma li miglioravano, alla faccia dell’ultima tendenza da osannare. Ci ha insegnato come costruire un mito solo con il duro lavoro, monumentalizzando la sua immagine, eppure mantenendo un’identità precisa in un mondo fondato sul cambiamento.

«La moda è un mestiere che nasce al tavolo da disegno e poi si sviluppa in fabbrica, o in atelier, dove il progetto prende vita, diventando abito o accessorio da indossare. La considerazione può apparire ovvia, e invece non lo è. L’importanza degli aspetti pratici e tecnici legati alla professione tende a essere dimenticata oggi che la moda, in quanto sistema, è spesso distratta dal fare comunicazione. Perché, in un mondo sempre più virtuale, bisogna essere capaci di creare qualcosa che abbia sostanza e che, nel migliore dei casi, renda più facile la vita di chi la usa. Bisogna saper progettare: da un progetto ben definito deriva tutto il resto».

Giorgio Armani ha sempre sostenuto che sì, le persone hanno bisogno di qualcosa di bello e non ancora visto. Ma a questo bisogno ha risposto non con la temporalità della moda, ma con l’eterno richiamo a un’armonia delle forme della quale il suo marchio è diventato sinonimo.

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Giorgio Armani negli anni 80 sulle pagine di Amica.

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