Le felpe della nipote di Trump, e le ereditiere con la telecamera del telefono sempre accesa

Ottobre 3, 2025 - 06:00
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Le felpe della nipote di Trump, e le ereditiere con la telecamera del telefono sempre accesa

Anche voi vendevate i giornaletti? Tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta a Bologna andava molto, credo l’avessimo copiato da qualche film americano, da qualche bambino che vendeva la limonata sul prato di casa.

Solo che nessuno di noi bambini padani viveva in quelle case da sobborghi residenziali americani, vivevamo o dentro a palazzi con genitori che certo non ci avrebbero lasciato mettere il nostro mercatino in mezzo alla strada, o in ville sui colli davanti alle quali non passeggiava nessuno.

Non ricordo a chi vendessi le mie carabattole, probabilmente i miei chiedevano ad amici e parenti in visita di fingere interesse per la mercanzia e comprare qualcosa, ridandogli pure i soldi. Cosa bisognava fare per far sentire indipendente la prole prima ch’essa raggiungesse l’indipendenza economica a mezzo fotocamera del cellulare.

Kai Madison Trump ha compiuto diciott’anni a maggio, è la figlia di uno dei figli di Donald e Ivana, la nipotina che l’anno scorso al congresso repubblicano che ufficializzava la candidatura del nonno a un secondo mandato ha fatto un discorso per dire che il nonno era proprio una persona normale, il che non è servito a convincere i detrattori del Donald ma è stato più che abbastanza per dare alla Kai un profilo pubblico col quale accendersi la telecamera del telefono in faccia, la più popolare forma di sussistenza di questi anni.

Certo, potrebbe fare solo la ragazza ricca, l’anno scorso aveva annunciato che sarebbe andata da golfista all’università di Miami, ringraziando nel post il nonno «per avermi portata sui migliori campi da golf», ma nessuna vuol più essere solo una ragazza ricca, neanche quelle con una qualche tradizione familiare d’eleganza, figuriamoci una Trump.

La settimana scorsa Kai ha annunciato ai suoi due milioni e duecentomila follower su Instagram, e ai tre milioni e quattrocentomila su TikTok, che aveva messo in produzione delle felpe col logo TK (il Wall Street Journal riporta dei commenti social secondo cui il logo sarebbe scopiazzato da quello del merchandising di qualcuno con le stesse iniziali della ragazza: Travis Kelce, il fidanzato di Taylor Swift).

«È letteralmente il miglior materiale da felpa che abbia mai toccato, ma proprio il migliore», dice Kai con tipici superlativi trumpiani, e a me sembra strano che non dica «il miglior cotone»: vado sul sito, e la felpa (centotrenta dollari) è ottanta per cento cotone e venti per cento «poliestere riciclato». Però è fabbricata negli Stati Uniti, non come i cappellini Maga con la loro brava etichetta con dichiarazione di fabbricazione nel terzo mondo.

Kai ha fatto un video in cui prometteva quattro felpe autografate ai primi acquirenti, le prime tre le aveva già firmate «ma la quarta la firmo davanti alla telecamera, così vedete che la firmo proprio io»: se sei una Trump, non si fidano neanche dell’autografo sulla felpa.

Tre giorni fa si è fatta filmare, ovviamente mentre indossava la sua felpa, mentre faceva due tiri notturni a golf, e dietro di lei c’era un edificio dall’aria familiare: era il prato della Casa Bianca. Al Wall Street Journal, dove sono spaventati dal nepotismo come chiunque abbia un editore che ha fatto i fantastiliardi e si ritrova con una progenie non all’altezza, hanno preso molto sul serio il timore degli iniqui vantaggi affaristici: se sei nipote del Presidente, vendi più felpe?

L’Ufficio per l’Etica Governativa ha risposto alla giornalista che gli standard comportamentali si applicano solo ai dipendenti pubblici, ed è ovvio che sia così ma è anche interessante vedere come gli ultimi nove anni abbiano mostrato i limiti dell’etica americana, basata sul principio della buona fede.

Il paese in cui tutto ha bisogno d’essere legge, dallo sport femminile all’accesso ai bagni negli esercizi pubblici alla possibilità per le donne d’aprirsi un conto corrente senza il benestare del marito, il paese che non riesce ad affidarsi al buonsenso per nulla (veramente serve una legge per dire che se hai la colite il bar è tenuto a lasciarti usare il suo bagno?), poi decide di affidarsi alla buona fede per quanto riguarda l’etica di chi lo governa: mica vorremo pensare che se ne approfittino, orsù.

«Non c’è divieto a fotografarsi alla Casa Bianca, né è stata fatta pubblicità da parte del governo al suo prodotto», ha detto al WSJ qualcuno che s’è incaricato di rispondere a quest’inchiesta sui pericoli delle felpe della nipote. Il fatto è che, per quanto piaccia a tutti inorridire per la volgarità di questa famiglia di bottegai che desacralizza la Casa Bianca usandola per vendere felpe, lo sfondo è solo uno sfondo. Un di più. Una maramalderia.

Certo che la nipote di Trump, proprio come il nonno, avrà l’atteggiamento di chi può tutto, anche fare le televendite dall’ala ovest, ma mica le serve quello per posizionarsi come influencer, diventare testimonial di marchi (già pubblicizza varie cose, giorgiomastrotica come tutti i giovani che dai social vogliono lucro e non compagnia), e altri modi di trarre profitto dall’essere giovani e carine nell’epoca dei telefoni con telecamera.

A novembre del 1994, quando Chloë Sevigny sta per compiere vent’anni, Jay McInerney ne scrive un ritratto sul New Yorker. Non è un fatto minore, perché a quel punto McInerney è abbondantemente già McInerney: “Le mille luci di New York” era uscito dieci anni prima ed era bastato a fare di lui per i decenni successivi l’autore da cui aspettarsi indicazioni su cosa fosse à la page. Sevigny aveva fatto pochissimo, era stata in un video dei Sonic Youth, l’aveva fotografata per una rivista Larry Clark, che l’avrebbe poi messa nel suo “Kids”. È difficile spiegare, nel mondo di oggi in cui la cultura popolare è rara quanto lo erano le automobili a inizio Novecento, cosa volesse dire quando il sistema decideva di puntare su una ragazza.

McInerney scriveva che Sevigny era la Edie Sedgwick della sua generazione, ed era l’unico esempio possibile: non ce n’era più di una ogni venti o trent’anni, di ragazza famosa per il solo fatto d’esser famosa, prima delle opere, prima del curriculum (in Italia eravamo molto più avanti: avevamo già avuto “Non è la Rai”).

Era un mondo completamente diverso, lo spiega bene Naomi Fry, adesso giornalista del New Yorker e allora adolescente che viveva in Israele e leggeva la copia della rivista cui era abbonato il padre: quando si arrivava al punto in cui Sevigny diceva che «Lagerfeld sta rovinando Chanel, Coco non avrebbe mai fatto le minigonne», quelli erano tutti nomi che Fry non conosceva, erano tutti riferimenti che doveva sbattersi per capire, e senza neppure avere Google.

Adesso è tutto cambiato, non importa se sia meglio o peggio: è un fatto, quel mondo lì non esiste più. Questo qui è un mondo sovraffollato di pulpiti e prediche, ma anche di ambizioni e occasioni. La più di successo, tra quelle che sono diventate donne d’affari accendendosi la telecamera del telefono in faccia, è anche lei figlia di qualcuno: dell’avvocato che fece assolvere OJ Simpson, Rob Kardashian.

La nipote di Trump fa quello che fanno tutte, e non è detto che lo faccia con maggior successo, nonostante la scenografia della Casa Bianca, nonostante il cognome noto proprio a tutti, nonostante i vantaggi competitivi che tanto preoccupano il giornalismo d’inchiesta; ma non è detto che le sue felpe stiano in quella microscopica parte di fortune commerciali della troppissima roba che cerca di venderci l’internet a mezzo ragazze carine che ammiccano al telefono.

Un cuoricino non si nega a nessuna, ma i dati della carta di credito, con quelli siamo più accorte. Le mutande di Kim Kardashian, che tutte compriamo in quantità maggiori del necessario, sono un’eccezione, mica la regola. Era molto più semplice, per i nostri genitori, allungare una banconota al fattorino del lattaio e pregarlo di fingersi interessato ad acquistare i nostri giornaletti.

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