L’economia globale ignora la natura e trascura i limiti che la biosfera impone

Un cambiamento nell’agenda della ricerca, anche quando l’evidenza lo richieda, è spesso quasi impossibile. Entità – come la Natura – che sono state assenti per anni e anni da articoli di riviste e libri, restano assenti. Gli storici dell’economia chiamano una simile situazione path dependence, dipendenza dal percorso.
Se la biosfera (uso «biosfera» come sinonimo più scientifico della parola Natura) fosse stata considerata negli anni Cinquanta e Sessanta, quando sono stati costruiti i modelli di sviluppo economico di lungo periodo e per estensione l’economia della povertà, il modo dominante di intendere l’economia oggi sarebbe molto diverso e io non starei scrivendo questa prefazione. Ci sono quattro ragioni intrecciate fra loro per cui ciò non è avvenuto.
In primo luogo, l’ecologia nel modo in cui si è sviluppata negli anni recenti era agli albori ed erano pochi gli ecologi che cercavano segni di tensioni su scala planetaria. Che non ne abbiano trovati, costituisce la seconda ragione, nel senso che nell’immediato dopoguerra l’economia globale non era ancora abbastanza grande da espandersi fino ai limiti estremi della biosfera.
Le prime due ragioni sono supportate dalla terza ragione, consistente nel fatto che per molto tempo le economie occidentali hanno esternalizzato il loro «bisogno di biodiversità» nei paesi poveri della fascia tropicale. Se una fonte di approvvigionamento di un prodotto primario si fosse esaurita in un paese, ci sarebbe stato un altro paese dove andare o si sarebbe aperta la possibilità di sviluppare internamente un sostituto, magari usando un insieme di prodotti primari differenti, provenienti da un’altra fonte estera. La degradazione degli ecosistemi locali dei tropici era già allarmante e molte comunità rurali dei tropici hanno sperimentato la perdita di biodiversità, ma il pensiero economico ufficiale – anche il pensiero ufficiale su povertà e sviluppo – riteneva la Natura infinita in estensione e capacità.
La quarta ragione è che il mondo postbellico ha riscosso un successo senza precedenti nell’elevare il livello di vita. Visto con gli occhi degli anni Cinquanta del secolo scorso il panorama economico di oggi sarebbe irriconoscibile. L’economia globale è cresciuta più di quindici volte; il reddito pro capite è aumentato di cinque volte, raggiungendo i 20.000 dollari internazionali all’anno; e la povertà assoluta, che riguardava il 60 per cento della popolazione, è scesa sotto il 10 per cento. E tutto ciò nonostante l’aumento della popolazione globale, che è passata da 2,5 a oltre 8,1 miliardi di individui. Come i commentatori hanno ripetutamente osservato negli ultimi anni, l’umanità non è mai stata così bene.
Questi straordinari traguardi sono stati resi possibili dall’accumulazione di «capitale prodotto» (la denominazione usata per descrivere asset tangibili, fisici, come strade, porti, edifici e macchine), «capitale umano» (asset intangibili come la salute, l’istruzione, il talento) e idee (scienza e tecnologia). Il processo di accumulazione ha trasformato interi paesaggi in campi coltivati a perdita d’occhio e ha fatto sorgere città scintillanti in tutto il globo. Tale successo ha influenzato l’impostazione dei problemi economici e la ricerca dei modi per diffondere ovunque la stessa felice condizione a coloro che erano stati lasciati indietro.
Ma il nostro successo globale si è accompagnato con una biosfera sempre più impoverita, a causa delle attività minerarie, delle cave, dell’uso della terra e dell’inquinamento che tutto ciò comporta. Un segno di questo impoverimento è stata l’estinzione delle specie, attualmente da cento a mille volte i tassi di estinzione media nei diversi milioni di anni precedenti. Un altro segno è stato il declino della capacità della biosfera di soddisfare in modo sostenibile la nostra domanda di beni e servizi.
L’economia globale può essere essenzialmente rappresentata come una moneta: una faccia mostra grattacieli, piantagioni, campi coltivati, allevamenti e autostrade; l’altra faccia raffigura laghi inariditi, clima sempre più instabile, zone oceaniche morte, foreste disseccate, barriere coralline che si sbiancano, bacini idrografici isteriliti.
Se questo altro lato è assente nella teoria economica corrente, la ragione è che i decisori di oggi, sia nelle istituzioni private sia in quelle pubbliche, sono gli studenti di ieri. È difficile sopravvalutare la reciproca influenza tra l’economia insegnata nelle università e i processi decisionali nel mondo in generale e la loro impronta combinata esercitata sull’immaginario collettivo. Se la biodiversità è assente dai conti economici ufficiali – le principali riviste economiche raramente pubblicano articoli sul capitale naturale –, è perché sin dall’inizio la Natura è stata assente dalla teoria economica.
(…) L’assenza della Natura dalla riflessione economica corrente evidenzia un paradosso. I commentatori economici chiedono giustamente che le politiche pubbliche siano basate su prove, e sanno che le evidenze raccolte saranno inutilizzabili se costruite su una concezione ingannevole della condizione umana, perché modelli mal congegnati producono evidenze false. Ma essi dovrebbero anche sapere che i sistemi di pensiero che non riconoscono che l’umanità è integrata nella Natura, quando usati per proiettare possibilità presenti e future, possono essere fuorvianti.
Le scoperte degli ecologi e degli scienziati della Terra hanno dimostrato che questi sistemi di pensiero possono essere così fuorvianti che le politiche basate su di essi non solo mettono in pericolo le generazioni future, ma danneggiano anche le vite dei poveri del mondo contemporaneo. La letteratura enormemente vasta e influente in materia di economia della crescita e dello sviluppo e in materia di economia della povertà resta carente da questo punto di vista. Appare come un elaborato esercizio di solipsismo collettivo. Questo libro è un tentativo di porvi rimedio.
Tratto da “Il capitale naturale” di Partha Dasgupta, Bocconi University Press, 224 pagine, 23,28€
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