L’industria nucleare preoccupata dalla carenza di uranio: impianti a rischio se non si aprono nuove miniere

Il nucleare è la risorsa energetica del futuro e su cui investire, come sostiene il governo italiano? Tutt’altro, dicono i dati europei, perché i Paesi del nostro continente stanno sempre più voltando le spalle a questa tecnologia a favore delle più convenienti rinnovabili. E tutt’altro dicono anche i dati della stessa industria nucleare, sempre più preoccupata da un fattore che inizia a farsi sentire: la carenza di uranio da destinare ai reattori in funzione e a quelli di nuova costruzione.
Si legge nell’ultimo rapporto della World Nuclear Association: «Sette reattori hanno completato la costruzione e sono stati collegati alla rete nel 2024. Tre di questi si trovavano in Cina, con i restanti quattro negli Emirati Arabi Uniti, in Francia, in India e negli Stati Uniti. Attualmente ci sono 70 reattori in costruzione in tutto il mondo, con la costruzione di nove reattori a partire dal 2024, sei in Cina e uno ciascuno in Pakistan, Egitto e Russia». Tutto bene per chi lavora nel ramo? A leggere titoli e testi diffusi dall’associazione di settore sì, ma leggendo attentamente i dati forniti dalla stessa organizzazione internazionale che rappresenta l’industria nucleare globale ci sono dense ombre che si stanno formando sul comparto. In particolare questa: proprio per via dei nuovi impianti a cui stanno dando spazio soprattutto Cina e India, il fabbisogno globale di uranio per i reattori è destinato ad aumentare di un terzo, raggiungendo le 86.000 tonnellate entro il 2030 e le 150.000 tonnellate entro il 2040.
Il problema, che non sfugge alla Wna, è che a fronte di questa crescente domanda, la disponibilità di uranio si dimezzerà tra il 2030 e il 2040 a causa dell’esaurimento dei giacimenti esistenti, lasciando un «vuoto significativo» che minaccia la prospettata rinascita del nucleare. «Poiché le miniere esistenti dovranno affrontare l'esaurimento delle risorse nel prossimo decennio, la necessità di nuove fonti di approvvigionamento primario di uranio diventa ancora più urgente», avverte il rapporto. «Saranno necessarie esplorazioni approfondite, tecniche di estrazione innovative, procedure di autorizzazione efficienti e investimenti tempestivi».
La questione non è passata inosservata a un giornale attento alle dinamiche economiche come il Financial Times, che ha riportato tre sintetiche quanto significative frasi di Mark Chalmers, amministratore delegato della società statunitense Energy Fuels, specializzata nella produzione di uranio. La prima riguarda la previsione che «un numero maggiore di aziende ridurrà le proprie previsioni», in parte a causa proprio del calo di produttività delle miniere ormai obsolete. La seconda: «L’intero ecosistema dovrebbe essere in equilibrio, ma non lo è». La terza: «Ci sono nubi all’orizzonte».
Tra l’altro, se l’invito della World Nuclear Association è ad accelerare nuove esplorazioni, giustamente viene osservato al Financial Times che «la creazione di nuove miniere di uranio per soddisfare la crescente domanda è un processo complesso e lungo. Possono essere necessari dai 10 ai 20 anni dalla scoperta dell’uranio all’avvio della produzione della miniera». La domanda è solo una, e riguarda in particolare un Paese come l’Italia che si appresta a entrare ora in questa partita: conviene?
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