Trump ha trasformato la Nato in una facciata senza sicurezza per l’Europa

La crisi dell’alleanza Nato, che da entrambe le sponde dell’Atlantico si è a lungo negata o rinviata, è ormai giunta: questo è il momento in cui il mondo scoprirà se gli Stati Uniti restano davvero impegnati nella difesa dei propri alleati. Fin dalla sua prima campagna elettorale, Donald Trump è stato nel migliore dei casi ambiguo riguardo agli impegni di sicurezza dell’America verso l’Europa. Gli alleati hanno sperato di blandirlo, manipolandolo facendo leva sulla sua vanità, chiamandolo daddy, accettando senza resistere le sue tariffe punitive e, in generale, subendo una umiliante sudditanza nella speranza di guadagnare almeno tempo. Alcuni hanno perfino coltivato l’illusione che gli Stati Uniti avrebbero garantito una qualche forma di sicurezza se avessero inviato truppe in Ucraina; ma Vladimir Putin non avrebbe mai tollerato la presenza di forze europee sul suolo ucraino, e così questa fantasia avrebbe potuto durare indefinitamente.
Ogni vero banco di prova sull’impegno americano alla sicurezza europea appariva come un problema rinviato al futuro, e nel frattempo, in quell’incerto interregno, si poteva mantenere la facciata di armonia transatlantica, almeno fino a quando l’Europa non fosse diventata abbastanza forte da reggersi da sola o Trump fosse uscito di scena. Questa finzione conveniva a entrambi: agli americani e agli europei. Trump non era costretto a compiere il passo controverso di abbandonare apertamente gli alleati, mentre di fatto già li stava abbandonando, e gli europei non erano costretti ad affrontare la realtà che gli Stati Uniti non c’erano più per loro, con tutte le implicazioni che ciò avrebbe avuto per la loro sicurezza – e per le loro spese militari.
Putin, al contrario, aveva ogni motivo per forzare la questione prima piuttosto che dopo. L’unica cosa sorprendente del suo attacco alla Polonia è che non lo abbia fatto prima. (Mosca nega di aver inviato i droni sul territorio polacco.)
Va ricordato che un simile attacco è sempre stato un’opzione concreta per Putin. Oggi si presta poca attenzione alle leggi sulla neutralità, ma per secoli, prima della Seconda guerra mondiale, era chiaro che se un governo forniva armi e materiali bellici direttamente a un altro Paese in guerra contro una terza nazione, ciò lo rendeva legalmente belligerante e quindi legittimo bersaglio.
Faceva eccezione la vendita privata di armi, modalità con cui gli Stati Uniti riuscirono a rifornire Regno Unito e Francia quando Washington era ancora neutrale nella Prima guerra mondiale. Ma forniture dirette governo-governo costituivano una violazione della neutralità, che conferiva al terzo Paese il diritto di dichiarare guerra o di usare la forza per interrompere quei rifornimenti. Le leggi della neutralità non distinguevano tra aggressore e vittima, perché tali distinzioni non erano sempre nette. Se Putin avesse deciso in qualunque momento di bombardare le linee di rifornimento verso l’Ucraina da Polonia, Romania o Slovacchia, avrebbe avuto il diritto di farlo.
Perché non lo ha fatto? Nelle prime fasi della guerra forse non ne aveva la capacità – i missili russi non riuscivano neppure a colpire regolarmente Kyjiv. Ma il deterrente principale era quasi certamente la prospettiva di trascinare nella guerra la Nato, e con essa gli Stati Uniti. Questo era sempre stato lo scenario da incubo di Putin, soprattutto una volta fallito il piano di una rapida vittoria e con le sue forze impantanate e vulnerabili in Ucraina.
Se la Nato fosse entrata in guerra in qualsiasi momento negli ultimi tre anni, le forze russe in Ucraina sarebbero state condannate. Gli Stati Uniti, con i soli missili lanciati da navi e sottomarini, avrebbero potuto distruggere il ponte di Kerč’, tagliando la principale linea di rifornimento e via di fuga della Russia. L’esercito russo intrappolato in Ucraina sarebbe diventato un bersaglio facile per missili e aerei Nato. Putin si sarebbe trovato di fronte alla scelta tra una guerra totale con la Nato – che non poteva vincere, e che si sarebbe trasformata in un conflitto nucleare capace di distruggere la Russia – oppure la resa. Pur minacciando continuamente escalation atomiche per tenere la Casa Bianca sotto pressione, Putin è stato in realtà attentissimo a non provocare mai una risposta militare americana o della Nato.
Eppure, fin dall’inizio, i più timorosi di un intervento americano sono stati proprio gli americani. Si consideri la reazione dell’amministrazione Biden in ogni fase del conflitto. L’intelligence statunitense disponeva già da novembre 2021 di informazioni dettagliate sui piani di invasione russi, inclusa la tempistica. Tra allora e febbraio 2022, Washington avvertì Putin di non invadere, minacciò sanzioni e condivise efficacemente quelle informazioni con alleati e media.
Ciò che non fece fu intraprendere azioni che potessero anche solo suggerire un possibile coinvolgimento militare americano o Nato. Gli Stati Uniti non inviarono navi nel Mar Nero, sebbene si trattasse di acque internazionali, né mossero truppe in avanti in Europa, tantomeno in Ucraina. Al contrario, Biden fu scrupoloso nell’evitare qualsiasi segnale che potesse prefigurare una risposta militare all’invasione ormai annunciata.
Si può solo immaginare come Putin abbia interpretato quei segnali. Il suo piano iniziale era muoversi così rapidamente da presentare a Stati Uniti e Nato un fatto compiuto. Ma Washington, pur conoscendo con mesi di anticipo le sue intenzioni, evitò con cura di lasciar intendere una risposta diversa dalle sanzioni, che Putin era pronto a sopportare.
Poi arrivò l’invasione disastrosa. Circa centonovantamila soldati russi – praticamente tutto l’esercito dispiegabile di Putin – si ritrovarono impantanati nel fango, sotto l’attacco di forze ucraine sorprendentemente resistenti. Putin doveva essere in preda al panico, perché se la Nato avesse anche solo minacciato di colpire il ponte di Kerč’, intrappolando il suo esercito in Ucraina, si sarebbe trovato tra la resa e una guerra nucleare intercontinentale. Non avrebbe potuto usare armi nucleari in Ucraina senza contaminare le proprie truppe, e anche se lo avesse fatto, Stati Uniti e Nato sarebbero rimasti illesi e liberi di distruggere con mezzi convenzionali il resto delle forze russe: scacco matto.
Eppure, ancora una volta, gli Stati Uniti non fecero nulla. Fornirono armi all’Ucraina, con significative restrizioni al loro impiego, e si guardarono bene dal compiere azioni che potessero apparire aggressive. Così Putin superò il momento di massima vulnerabilità per la Russia dai tempi di Stalingrado.
Scampato il disastro e misurata l’ampiezza dell’autodeterrenza americana, Putin iniziò a esercitare pressioni sui vicini e fornitori dell’Ucraina. Era la logica evoluzione del conflitto, ma anche la conseguenza delle contraddizioni della politica americana: aiutare Kyjiv evitando però lo scontro diretto con Mosca. Putin non aveva mai costretto Washington a scegliere tra questi due obiettivi. Fino a oggi.
L’obiettivo primario di Putin ora è costringere l’Ucraina alla resa. In Polonia, il sostegno a Kyjiv è già tema di dibattito; la prospettiva di attacchi russi di ritorsione potrebbe alimentare l’opposizione, soprattutto se gli Stati Uniti si rivelassero inaffidabili. Ciò spingerebbe gli ucraini a immaginare un futuro senza assistenza esterna.
Ma Putin punta anche a un premio più grande: il collasso dell’alleanza Nato. Da mesi conduce una guerra ombra contro i Paesi membri, che il Center for European Policy Analysis descrive come «una campagna concertata e coordinata di attacchi» volta ad alzare i costi e i rischi per chi sostiene l’Ucraina. Si tratta di sabotaggi di infrastrutture strategiche, incendi dolosi e tentati omicidi di dirigenti del settore della difesa europeo. La risposta dell’amministrazione Trump è stata dire agli europei che devono difendersi da soli, poiché gli Stati Uniti non possono più permetterselo; accennare a significativi ritiri di truppe americane dall’Europa; e, più di recente, cancellare un programma pluriennale di addestramento militare per gli alleati baltici.
La guerra ombra era una tipica sonda putiniana per capire fin dove si spingesse la tolleranza americana. L’assenza di risposta da parte di Trump lo ha incoraggiato a fare un passo ulteriore e portare questa guerra dall’ombra alla luce. Attaccando apertamente la Polonia, Putin ha messo la questione dell’impegno di sicurezza americano in primo piano. Che Trump non reagisse ai continui bombardamenti contro obiettivi civili in Ucraina era una cosa. Ma se non farà nulla davanti a un attacco russo alla Polonia, gli europei dovranno smettere di illudersi e affrontare la realtà: gli americani non ci sono più per loro.
Questo articolo è uscito in inglese sull’Atlantic, lo pubblichiamo per gentile concessione dell’autore. Robert Kagan ha scritto “Insurrezione – Il populismo illiberale che sta facendo a pezzi l’America e la società aperta”. Si può acquistare qui.
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