Usa. L’arma dei dazi e la geopolitica trumpiana

Aprile 11, 2025 - 20:00
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Usa. L’arma dei dazi e la geopolitica trumpiana

di Riccardo Renzi

Quando Donald Trump dichiara che l’Unione Europea è stata “molto dura” ma anche “molto intelligente” nel sospendere i dazi di ritorsione contro gli Stati Uniti, non sta solo commentando una scelta tattica. Sta delineando, con il suo stile ruvido e teatrale, una delle traiettorie più rilevanti dell’attuale ordine geopolitico: la ridefinizione delle relazioni transatlantiche e l’uso spregiudicato delle leve economiche per ribaltare decenni di consuetudini multilaterali.
Trump si rivolge all’Unione come a un “blocco unico” ma, allo stesso tempo, la accusa di essere nata per “approfittarsi degli Stati Uniti”. Una contraddizione solo apparente: nel linguaggio geopolitico trumpiano, ogni partner commerciale è un competitore, ogni alleanza una potenziale trappola, ogni equilibrio consolidato un vincolo da infrangere.
La postura trumpiana è chiara: i dazi non sono solo strumenti economici, ma armi negoziali. Si minacciano, si alzano, poi si sospendono. È una diplomazia del pendolo, dove ogni passo avanti può essere seguito da una marcia indietro strategica. Il caso della pausa di 90 giorni concessa nei confronti della Cina è emblematico: un segnale ambiguo, che non chiarisce se siamo di fronte a una reale intenzione di negoziare o a una mossa per guadagnare tempo mentre Wall Street crolla.
L’Europa, osservando la parabola cinese, ha scelto un atteggiamento attendista. Una strategia “intelligente”, come ammesso dallo stesso Trump, ma che sottende una consapevolezza profonda: l’Unione, nel nuovo scenario multipolare, può trovarsi schiacciata tra due superpotenze in lotta per la supremazia.
Trump è convinto che la Cina “si sia approfittata degli Stati Uniti per troppo tempo”. La sua amministrazione ha portato i dazi fino al 145%, nel tentativo di ricalibrare un sistema commerciale globale che considera truccato. Eppure, pur nell’inasprimento del confronto, Trump insiste nel definire Xi Jinping “un amico”. Una narrazione schizofrenica, che mira a legittimare le tensioni come atti necessari in una guerra giusta: quella per “riequilibrare il tavolo”, restituendo centralità agli Stati Uniti.
Dietro le quinte, tuttavia, il prezzo politico ed economico si fa sentire. Le borse mondiali hanno già bruciato migliaia di miliardi. Il dollaro si indebolisce, mentre il costo del debito Usa cresce. E, per la prima volta, titoli di Stato e moneta americana — i tradizionali “beni rifugio” in tempi di crisi — sembrano perdere appeal. Un segnale inquietante, che potrebbe preannunciare la fine della fiducia incondizionata nella supremazia economica statunitense.
Trump non si limita ai dazi commerciali tradizionali. La sua minaccia al Messico — “più acqua al Texas o aumentiamo le tariffe” — apre un nuovo fronte: quello della geopolitica ambientale. Il riferimento a un trattato idrico del 1944 viene usato come pretesto per imporre una linea dura su una risorsa strategica in epoca di crisi climatica. Ma ciò che colpisce è l’uso del linguaggio: “Il Messico ha rubato l’acqua”, scrive Trump sul suo social, Truth. Una narrazione da guerra fredda idrica, che mostra come ogni leva — anche ambientale — possa essere convertita in arma di pressione.
La risposta della presidente messicana Claudia Sheinbaum, che ha rivendicato il rispetto degli accordi “nei limiti della disponibilità” d’acqua, è una prova di equilibrio diplomatico. Ma anche un avvertimento: la geopolitica delle risorse sta diventando una linea di faglia sempre più rilevante.
Il contraccolpo sui mercati è devastante. Le parole di Ray Dalio, Jamie Dimon e Bill Ackman, tre dei nomi più influenti della finanza statunitense, non lasciano spazio a interpretazioni: Trump rischia di spingere l’America in una recessione autoindotta. Il presidente viene descritto come sempre più isolato, mentre persino Elon Musk si schiera per un accordo di libero scambio tra Usa e Ue, criticando aspramente la strategia protezionista.
Eppure, la forza ideologica dei dazi resta intatta nel discorso di Trump. Le sue affermazioni, “sono stanco di vedere altri paesi fregare gli Stati Uniti”, non sono nuove. Sono la riproposizione di un pensiero che risale agli anni ’80, ai tempi delle interviste con Larry King e David Letterman. È un pensiero radicato in un’idea di America assediata, sfruttata, in declino. E che ora, dopo decenni di globalizzazione, cerca rivincita attraverso la disgregazione degli assetti multilaterali.
L’Unione Europea, nel frattempo, si muove su un filo sottile. La sua scelta di sospendere la ritorsione contro i dazi Usa è stata letta come un gesto di prudenza. Ma anche come una dimostrazione della sua vulnerabilità strategica. Priva di una politica estera davvero comune, e con una politica commerciale ancora esposta ai singoli interessi nazionali, l’UE rischia di restare spettatrice nel duello fra giganti.
La sfida è chiara: l’Europa dovrà decidere se continuare a oscillare fra accomodamento e resistenza, oppure dotarsi finalmente di una vera sovranità economica e strategica. Per non essere risucchiata nel gioco al rialzo della geopolitica trumpiana.
Trump non gioca a un solo gioco. Usa i dazi come clava, ma anche come bussola. Brandisce minacce per negoziare, ma anche per riscrivere le regole. Si muove in uno spazio fluido, dove i confini tra economia, sicurezza e politica si confondono. Forse non ha un piano unico, ma ha un obiettivo: rimettere l’America al centro, anche a costo di spaccare il mondo. L’Unione Europea, la Cina, il Messico, e i mercati globali stanno imparando a proprie spese che in questa partita non ci sono regole fisse, solo colpi di scena.

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