Franceschini, oplà, si converte al radicalismo minoritario di Schlein

L’intervista a Repubblica di Dario Franceschini è un manifesto del suo professionismo politico e del suo realismo cinico. È come se il bricoleur delle alleanze del Partito democratico fotografasse la situazione, ne accettasse le storture e i vincoli voltandoli a proprio favore senza porsi altro obiettivo se non quello di aggiudicarsi la gara in ogni modo. È un’intervista, in questo senso, conservatrice: che non punta a costruire una grande proposta politica che parli a tutto il Paese, ma vuole teorizzare una tecnica elettorale per vincere. Nel senso: vincere e poi si vede, le distanze non sono incolmabili eccetera.
Franceschini ritiene che le elezioni se le aggiudica chi porta a votare i suoi, stante il fatto che dall’astensionismo si ricava poco o nulla. In un tempo di radicalismi come questo non servono leader moderati, ma appunto leader radicali. Come se i milioni di persone che non vanno a votare fossero tutti estremisti e non, invece, in maggioranza gente normale.
Franceschini naturalmente non dice se allo scopo sia meglio Elly Schlein o Giuseppe Conte, e già questo è piuttosto strano per un dirigente del partito, appunto, di Schlein – sarebbe addirittura inquietante se l’una o l’altro per lui fossero pari.
La notizia è dunque lo stop a candidature alla Romano Prodi: «Nella fase iniziale del bipolarismo era naturale pescare nella società civile. Oggi lo è che siano i partiti della coalizione a esprimere il candidato premier». Considerata la rigidità dei due poli, per l’ex ministro della Cultura è velleitario puntare a prendere voti dall’altro campo: cosa che invece dovrebbe costituire il nocciolo della buona politica.
Infine, Franceschini ha ripetuto che nel campo largo ci vorrebbe anche un soggetto che attiri i voti dei moderati (punta molto sui sindaci) e così la mutazione genetica del Partito democratico, da partito a vocazione maggioritaria a partito radicaleggiante di minoranza, ha il sigillo franceschiniano: «Il Pd autosufficiente è stato un bel sogno ma non è più realistico. Schlein sta facendo un lavoro straordinario per recuperare l’astensionismo a sinistra. Serve che altri facciano la loro parte e completino l’opera». Messe così le cose, il Nazareno difficilmente supererà il venticinque per cento. E soprattutto non si capisce perché un moderato dovrebbe essere attratto da un candidato premier di tipo radicale.
Più in generale – lo ha notato un veltroniano storico come Walter Verini – Franceschini sembra fare propria, a specchio, la radicalizzazione della destra meloniana: «Il Pd deve fare il contrario – ha detto Verini – non deve pensare a un bipolarismo radicalizzato, come di fatto dice Franceschini. Il Pd si deve allargare, rompere la radicalizzazione. Oltre la metà dei cittadini non va a votare, quindi dobbiamo convincere gli astensionisti, non solo fidelizzare. È lì che si gioca la partita».
Ricapitolando, la strategia di Franceschini è abbastanza semplice: quel Pd è morto e sepolto, per cui per vincere bisogna strillare di più degli altri. Dopo la vittoria, che per lui è quasi cosa fatta, si vedrà. Auguri.
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