Il gioco delle tre carte sulle Marche

A proposito del voto nelle Marche, Carmelo Palma fa notare su Linkiesta un dato spesso sottovalutato: nelle regioni vincono quasi sempre gli uscenti, fino a vere e proprie degenerazioni dinastiche (cui fortunatamente si è messo un freno con il no al terzo mandato), perché «le regioni, per una scelta improvvida del legislatore costituzionale, hanno cessato da tempo di essere uno strumento di governo, ma attraverso una gestione irresponsabile del potere e della spesa locale (…) sono diventate uno strumento di acquisizione e sfruttamento del consenso».
Questo ovviamente non significa che la sconfitta del centrosinistra, con otto punti di scarto, sia meno significativa. Anzi, segnalo al riguardo una brillante ricostruzione di Luciano Capone, che oggi spiega sul Foglio perché l’argomento usato da Pier Luigi Bersani sulla coalizione che partiva «12 punti sotto» non regga: la volta precedente non c’erano né il M5s né la sinistra radicale, che raccolsero, sommati, poco meno dell’11.
Si tratta insomma di un gioco delle tre carte, che ricorda l’argomento secondo cui anche la batosta al referendum sul Jobs Act (30 per cento di affluenza) sarebbe stata una mezza vittoria, perché i 13 milioni di Sì erano più dei 12 milioni di voti raccolti dal centrodestra alle politiche.
Peccato che anche qui i numeri dimostrino tutta l’inconsistenza del ragionamento. Infatti, nonostante un’affluenza superiore di ben 18 punti, nelle Marche hanno votato per Matteo Ricci, il candidato del centrosinistra, 90 mila persone in meno rispetto a quelle che sono andate alle urne per il referendum, e 40 mila in meno di quelle che hanno votato Sì. Dunque, conclude giustamente Capone, l’analisi del voto «dovrebbe partire da questo: non quanti voti in più la sinistra ha preso rispetto alla sconfitta del 2020, ma quanti voti in meno ha preso rispetto alla sconfitta referendaria di tre mesi fa».
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