La Cassazione blocca i licenziamenti per chi ha rifiutato di esibire il Green Pass

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Green pass e lavoro: la Cassazione, con una recentissima sentenza, ribalta la giurisprudenza precente e in materia e frena tutti i licenziamenti causati dai dipendenti che hanno rifiutato negli scorsi anni lo strumento di certificazione di avvenuto vaccino anti Covid.
Negli anni dell’emergenza sanitaria il green pass è stato al centro di accese polemiche, soprattutto nei luoghi di lavoro. La vicenda che ha visto protagonista un dipendente del porto di Trieste è arrivata fino in Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità del suo licenziamento. Con la sentenza n. 24996/2025, depositata l’11 settembre, la Suprema Corte ha chiarito i limiti delle conseguenze previste dalla normativa emergenziale, segnando un punto importante nell’interpretazione dei rapporti tra obblighi sanitari e disciplina lavoristica.
Il caso
Tutto nasce al porto di Trieste, quando un lavoratore dell’Agenzia per il Lavoro Portuale (ALPT) si era rifiutato di esibire la certificazione verde COVID-19 (il cd. green pass) richiesto per accedere al luogo di lavoro durante l’emergenza sanitaria. Dopo settimane di tensioni, tra certificati dichiarati, ma non mostrati, periodi di assenza e contestazioni disciplinari, l’azienda decideva di licenziare il lavoratore per “giustificato motivo soggettivo”.
La scelta del datore di lavoro veniva confermata sia dal Tribunale che dalla Corte d’Appello di Trieste. Tuttavia, il lavoratore decideva di ricorrere in Cassazione, sostenendo che il recesso fosse contrario a quanto previsto dalla normativa emergenziale.
Il focus normativo/giuridico
Il cuore della questione sta nell’interpretazione dell’articolo 9-septies del d.l. n. 52 del 2021. La norma, in piena emergenza pandemica, al comma 1 stabiliva che “Dal 15 ottobre 2021 e fino al 30 aprile 2022, al fine di prevenire la diffusione dell’infezione da SARS-CoV-2, a chiunque svolge una attività lavorativa nel settore privato, ivi compresi i titolari di servizi di ristorazione o di somministrazione di pasti e bevande, è fatto obbligo, ai fini dell’accesso ai luoghi in cui la predetta attività è svolta, di possedere e di esibire, su richiesta, la certificazione verde COVID-19 di cui all’articolo 9, comma 2.”
Di rilievo è altresì il contenuto del comma 6 della norma citata, secondo cui “I lavoratori di cui al comma 1, nel caso in cui comunichino di non essere in possesso della certificazione verde COVID-19 o qualora risultino privi della predetta certificazione al momento dell’accesso al luogo di lavoro, al fine di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro, sono considerati assenti ingiustificati fino alla presentazione della predetta certificazione e, comunque, non oltre il 30 aprile 2022, senza conseguenze disciplinari e con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro. Per i giorni di assenza ingiustificata di cui al primo periodo non sono dovuti la retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato.”
In altre parole, chi si recava al lavoro senza green pass doveva essere considerato assente ingiustificato, senza diritto alla retribuzione, ma con la garanzia di conservare il posto. Le conseguenze della condotta in questione erano quindi chiare e ben delimitate: sospensione del trattamento economico, ma niente sanzioni disciplinari e, soprattutto, nessun licenziamento.
Il parere della Corte d’Appello
La Corte d’Appello aveva adottato una lettura estensiva della normativa, facendo riferimento ad una nozione di “possesso giuridico” del green pass e ritenendo che la norma non escludesse la possibilità di misure disciplinari quando il lavoratore, pur avendo i presupposti sanitari, rifiutasse di esibire la certificazione sottraendosi all’esecuzione della prestazione.
La Cassazione, con un’interpretazione restrittiva, ha ribaltato questa impostazione, dal momento che la legge era di per sé già chiara in ordine alle conseguenze della mancata esibizione della certificazione verde.
La Cassazione blocca i licenziamenti per chi ha rifiutato il Green Pass
Con la sentenza n. 24996/2025, la Cassazione ha accolto il ricorso del lavoratore, annullando la decisione della Corte d’Appello di Trieste e rinviando la causa alla Corte d’appello di Venezia. Secondo gli Ermellini, la Corte territoriale aveva introdotto una nozione non prevista dalla legge (“possesso giuridico”) per giustificare sanzioni disciplinari ulteriori rispetto alla sola sospensione del trattamento economico. Tale interpretazione è estranea alla volontà del legislatore, che ha invece voluto limitare l’effetto sanzionatorio alla perdita della retribuzione e alla sospensione senza conseguenze disciplinari.
In conclusione, la Corte ha chiarito che la disciplina emergenziale era finalizzata a regolare l’accesso al luogo di lavoro, non a creare una nuova fattispecie disciplinare idonea a giustificare il licenziamento, quando l’unica condotta contestata è la mancata esibizione della certificazione.
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