La tragica storia della maestra perseguitata da un intero villaggio

Settembre 17, 2025 - 21:30
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La tragica storia della maestra perseguitata da un intero villaggio

Il caso della maestra Italia Donati Toscana, di Cintolese, un paese in comune di Monsummano, è destinata a diventare il prototipo della ‘maestrina’ perseguitata dalle malelingue e dai potenti. Dopo squallide vicissitudini, si suicida infatti gettandosi nell’acqua del mulino, in una notte del maggio 1886, dopo essere stata sospettata di farsela con il ricco possidente sindaco del paese – Porciano, comune di Lamporecchio – dove si è spostata lasciando famiglia e casa per il suo primo incarico di insegnamento.

Costui aveva approfittato della normativa (il comune piccolo doveva sistemare abitativamente il maestro) e l’aveva messa ad abitare in una casa di sua proprietà: terzo trofeo femminile accanto a moglie, amante e rispettive figlie, che tutte convivono accanto al maschio padrone. Sembra la trama di un romanzo, c’è ‘tutto’. Ci sono i cattivi, ma ci sono anche i buoni, a facilitare schieramenti e immedesimazioni, smuovendo e mobilitando l’opinione pubblica. È stato – all’origine della storia – il suo maestro elementare a coglierne le doti e a insistere e ottenere dalla sua famiglia che facciano tutto il possibile per fare studiare quella ragazza di campagna, povera ma dotata. Diventare maestra è la forma di mobilità e promozione sociale dei giovani e – più innovativo ancora – delle giovani di fine Ottocento.

Il padrone del paese – in senso istituzionale come sindaco, ma anche sociale nella micro-dialettica locale del conflitto di classe, e soprattutto culturale, come interprete delle visioni più tradizionali e stantie della donna e del rapporto fra i generi –, dopo averla inutilmente circuita giunge ad accusarla anche di avere abortito. Non è vero, ma in paese la gente crede a lui e non a lei, predisposta a credere tutto il male possibile di questa prima generazione lavorativa di giovani donne sole, fuori di casa e allo sbando.

La figlia di uno spazzolaio, che ci viene a fare fra noi! Per giunta, la ragazza ha la sfortuna di essere graziosa, moltiplicando malignità e insinuazioni. La mandano sotto processo, che non riesce però risolutivo: persino Renato Fucini – come scrittore Neri Tanfucio, ma chiamato in causa anche come uomo di scuola e dirigente scolastico, da ispettore e provveditore agli studi – fa prevalere sui compiti istituzionali i suoi rapporti personali e sintonie sociali e di genere con il sindaco, e va al processo da testimone a difesa, non della perseguitata, ma del persecutore.

Prima del suicidio – potremmo dire ortisiano! qui il romanzo d’appendice muta registro, elevandosi a testimonianza simbolica e dimensione eroica – la povera ragazza scrive un’ultima desolata lettera al fratello: che duplica il suo nome in stile, lei l’hanno chiamata Italia, lui Italiano, nomi che, in quell’umile famiglia, valgono come una risonante affermazione d’epoca. Questo messaggio angoscioso sul limite della vita si pone talmente al centro della questione – maestre di campagna, istruzione e lavoro femminile, ragazze fuori di casa, rapporti di genere – da meritare d’essere riportato per intero. Non accade sovente di trovarsi di fronte a un simile sviluppo di fatti e di sintomi, una lucidissima parabola vera, oltre che un romanzaccio d’appendice che tristemente si invera.

(…) Il 26 giugno entra in campo sul «Corriere di Roma» un nome più noto, la giornalista e scrittrice napoletana Matilde Serao, che anche in quanto donna può aggiungere pathos e immedesimazione, sin dal titolo di un pezzo scritto per allargare il discorso al di là del drammatico episodio, che pure innesca la diatriba: Come muoiono le maestre. Una forma di sindacalizzazione del problema, al di là della sua genesi ‘romanzesca’, che permane comunque nella costruzione dell’articolo come una cronaca di tragico-patetici casi veri, con nomi, luoghi e circostanze dei soprusi seriali tipici della giovane donna al lavoro.

Nonostante l’esplosione pubblica del problema, tali e tante ne sono le implicazioni che solo più di vent’anni dopo, nel 1911, la legge Daneo-Credaro riuscirà a far passare dai comuni allo Stato la responsabilità, le spese e la gestione delle scuole elementari, che finché gravano sui piccoli comuni alimentano il potere di ricatto di ogni micro-classe dirigente locale e anche il fastidio rancoroso dei paesani che devono pagare con il loro lavoro – manuale – il lavoro fittizio e privilegiato – che può apparire di sole parole – di quei mangiapane a tradimento.

Tratto da “Autobiografia della scuola. Da De Sanctis a don Milani”, di Mario Isnenghi, il Mulino, pp.73-77, 24,70 €

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