Le utility degli enti locali possono davvero fare impresa? Per il Consiglio di Stato, il meno possibile

Una recente sentenza del Consiglio di Stato (05289/2025) affronta e chiarisce due punti che da anni fanno discutere enti pubblici, aziende e tribunali in materia di gestione dei servizi pubblici locali.
Primo punto: quando una società è “a controllo pubblico”? Il Consiglio di Stato afferma in modo lapidario che sono a controllo pubblico “tutte le società, senza eccezioni, in cui una o più amministrazioni pubbliche dispongano della maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria”. Quindi secondo la Corte basta contare le azioni, indipendentemente dalla esistenza di patti parasociali e senza considerare che un eventuale socio privato di minoranza abbia alcune specifiche funzioni che potrebbero prefigurare un “controllo” di fatto, come nominare l’Amministratore delegato. Ma colpisce soprattutto quel “senza eccezioni”, che sembra prefigurare la definizione di azienda a controllo pubblico anche per le società quotate in Borsa, in cui i Comuni abbiano la maggioranza aritmetica dei voti in assemblea ordinaria. La cosa non è irrilevante, considerato che per il Testo unico degli enti locali attribuisce alle aziende a controllo pubblico una serie importante di adempimenti formali (appalti, personale, etc) che possono essere evitati se un’azienda non è in controllo pubblico, oppure è una società quotata o una variante di questa fattispecie
Secondo punto: una spa mista a controllo pubblico può partecipare ad una gara per l’affidamento di servizi di Comuni non soci? Anche qui il Consiglio di Stato è lapidario: no, mai. Il presupposto di questa limitazione, secondo la Corte, è che una società mista (ppp) viene costituta per quella specifica concessione e non per svolgere attività di impresa e quindi non può estendere il proprio raggio di operatività in altre aree. Il socio privato che vince una gara a doppio oggetto per una spa mista non deve trarre vantaggi impropri da questa acquisizione operando in altri mercati e alterando cosi la concorrenza.
I due temi sono complessi e segnalano un problema normativo che ha a che fare con la “visione” del mondo dei servizi pubblici e delle aziende pubbliche, che si è consolidato con la approvazione del decreto Madia e delle sue successive integrazioni.
L’impianto normativo italiano ha scelto l’approccio in cui le aziende pubbliche sono un problema di “pubblica amministrazione” e non un problema di politiche industriali per i servizi pubblici, che sono un asset fondamentale dell’economia e della competitività del sistema Italia.
Senza poterlo dire troppo a voce alta, perché in Europa vige il principio di “indifferenza” sugli assetti proprietari delle società, il legislatore italiano non ha inteso riconoscere e promuovere la possibilità delle amministrazioni pubbliche locali di essere imprenditrici e azioniste di società che possano operare sul mercato. Una possibilità lasciata allo Stato (con le utility nazionali) ma non alle amministrazioni periferiche. Da qui la complessità e le difficoltà di definire le strategie del sistema delle aziende pubbliche locali.
In molti provarono a dirlo durante la elaborazione del decreto Madia, senza grandi risultati. La norma italiana non si basa sulla possibilità (e importanza) che le amministrazioni pubbliche locali abbiano di fare impresa in senso proprio, ovvero operando sui mercati, facoltà relegata a suo tempo solo alle aziende quotate e loro simili. In generale l’impresa pubblica viene “ammessa” se è uno strumento di autoproduzione, ovvero per i soli affidamenti in house, che vengono comunque in molti modi scoraggiati. Questo spiega le limitazioni alle spa miste, che paradossalmente hanno margini di movimento sui mercati (gare) inferiori a quelli delle aziende in house, che possono a volgere attività fuori perimetro pur entro il 20% del fatturato.
La legge non tratta in modo specifico aziende pubbliche che vincono gare, né prevedeva forme di quotazione in Borsa per le aziende pubbliche che non rientravano nell’elenco iniziale. In questo quadro si colloca il tema del “controllo pubblico”, che la norma introduce per “costringere” le aziende partecipate dagli enti locali a moltissime procedure onerose e complesse, che rappresentano un “burden” per aziende pubbliche che volessero operare sul mercato, rispetto ai concorrenti privati.
Finché vige in Europa il principio di indifferenza dovrebbero esistere due tipi di aziende pubbliche. Quelle “in house” che svolgono servizi in autoproduzione e che hanno correttamente limitazioni di mercato per non alterare la concorrenza e devono rispondere al concetto di “controllo pubblico”. E quelle di “mercato”, non beneficiarie di affidamenti diretti ma che partecipano a gare (sia per la concessione che per il partner privato) e che non devono essere gravate da oneri amministrativi diversi dalle concorrenti private, ma lasciate libere di operare, anche nella forma della spa mista, nata da una gara trasparente per il partner e che partecipa ad altre gare.
Insomma il legislatore italiano sembra dire: non possiamo impedire l’esistenza di aziende di proprietà pubblica di enti locali, ma intendiamo scoraggiarne la diffusione, rendendo complessa sia la costituzione di azienda in house e rendendo impossibile le attività di mercato per chi sceglie di operare a rischio sul mercato (fatte salve le quotate). Una cosa assurda, sia perché il patrimonio delle aziende pubbliche di servizi locali è il perno dell’industria italiana dei servizi, sia perché un analogo approccio non è stato usato per le utility nazionali. Se non si risolve questo problema di fondo, continueremo a leggere sentenze come quella di agosto del Consiglio di Stato.
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