L’epoca della sciatteria, e l’inesorabile disastro della classe dirigente

Ottobre 12, 2025 - 06:30
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L’epoca della sciatteria, e l’inesorabile disastro della classe dirigente

Due giorni prima degli ultimi Emmy, i premi della televisione americana, ero a cena con amiche, una delle quali voleva consigli su sceneggiati televisivi da guardare. Le stavamo dicendo di abbonarsi a Apple+, perché di lì a poco sarebbe cominciata la nuova stagione di “Slow Horses”, e poi c’è il documentario su Scorsese, e poi puoi recuperare quello su Steve Martin, e poi diamine, non hai ancora visto “Your friends and neighbors”.

Stavo tessendo le lodi di Apple+, unica piattaforma che produca roba per adulti, e non allungamenti di brodo per spettatori che più sono scemi e analfabeti più sembra vivano di fatiche intellettuali e asseriscono d’aver bisogno di «staccare il cervello»; poi a un certo punto ho detto: certo, non è che non trasmettano porcherie. Per esempio “The Studio”.

Le ho parlato male per un po’ di “The Studio”, dicendole che era l’esempio perfetto di prodotto per gente che non sa niente, non ha visto niente, ride se qualcuno inciampa, pensa che i piani sequenza nessuno li abbia mai fatti prima, non sa chi sia Robert Altman e non ha mai visto “I protagonisti”.

D’altra parte, proseguiva la mia arringa, sono mesi che la critica americana si sdilinquisce su “The pitt”, una serie medica taleqquale a tutte le serie mediche degli ultimi trent’anni, anzi un po’ peggio, con delle sciatterie di scrittura imperdonabili, però ai tesisti del Dams si bagnano le mutande perché, ehi, “The pitt” è in tempo reale, ventiquattr’ore al pronto soccorso. Accidenti, con solo ventiquattr’anni di ritardo su “24”.

Due sere dopo hanno assegnato gli Emmy. “The pitt” era la miglior serie drammatica. “The studio” la miglior serie comica. E qui potrebbe cominciare e finire il mio articolo sulla mia sintonia con lo spirito del tempo.

Nel frattempo su Sky e Now è arrivata “The pitt”, così anche gli italiani possono deliziarsi col fatto che Noah Wyle, lo specializzando di quando eravamo giovani e guardavamo “E.R.”, sia invecchiato assieme a noi e sia diventato il vegliardo del pronto soccorso – come personaggio.

Come attore, ha dovuto aspettare trent’anni perché lo stesso produttore di “E.R.” gli desse qualche altro anno di carriera mettendolo in un altro pronto soccorso, ma nessuna delle ex ragazze che si sdilinquivano davanti a “E.R.” è disposta ad ammettere che ciò non depone a favore delle qualità di Wyle, e che evidentemente non è “E.R.” che ha creato Clooney ma è Clooney che ha creato “E.R.”.

Nel frattempo è anche ricominciata (su Disney+) “Grey’s anatomy”, alla sua ventiduesima stagione. Ho visto tutte le puntate di tutte le stagioni, all’inizio perché aveva senso guardarle e successivamente perché qualcosa di nazionalpopolare bisogna pur seguire: è la stessa ragione per cui ho visto tutte le puntate di “This is us”, forse la cosa più brutta mai prodotta dalla tv generalista ma zeppa di spirito del tempo.

Quella che andrà la settimana prossima è la quattrocentocinquantesima puntata di “Grey’s”: fanno quattrocentocinquanta ore in cui avrei potuto imparare a suonare il violino o a parlare l’ungherese per leggere non tradotto quello che ha vinto il Nobel. E invece ho guardato quattrocentocinquanta ore di tv generalista melensa, assai migliore della tv che passa per sofisticata oggidì.

Guardavo la prima puntata della ventiduesima stagione, che veniva dopo quella di cui vi parlavo qualche mese fa, quella in cui una madre uscita di senno fa esplodere una bombola in sala operatoria. Non è uno schema inedito, a “Grey’s” amano far spaventare lo spettatore con un chirurgo che non può spostare la mano da dentro la pancia d’un paziente altrimenti esplode una bomba, o con l’aereo con tutti i chirurghi a bordo che si sfracella.

Nove anni fa, Meredith Grey, che nella prima puntata era una specializzanda che andava a letto col neurochirurgo senza sapere che il giorno dopo avrebbe cominciato a lavorare per lui, e nel frattempo è diventata un chirurgo famoso nel mondo e la comproprietaria dell’ospedale, veniva aggredita da un paziente, e per un po’ di tempo restava sorda e muta. La puntata era in parte dal suo punto di vista, con tutti i dialoghi attutiti e altri di quei trucchi per cui si bagnano le mutande i tesisti del Dams. A fare la regia chiamarono Denzel Washington.

Neanche il nome prestigioso e i trucchi di radianza bastarono a far avere a quella puntata uno straccio di candidatura agli Emmy. Tra gli sceneggiati che furono candidati quell’anno, uno qualunque degli ultimi sedici anni in cui gli Emmy hanno completamente ignorato “Grey’s”, c’è un bel campione di mode di stagione che non hanno retto sul lungo periodo e che nessuno di noi guarderebbe oggi neanche se li replicassero su una tv locale una sera in cui abbiamo il telecomando rotto: “Homeland”, “Il trono di spade”, persino “Mr Robot”, santiddio (ricordo il periodo in cui cercavano di convincerci che “Mr Robot” fosse rilevante con un’incredulità forse pari solo a quella con cui ricordo i girotondi).

Guardavo la puntata di questa settimana di “Grey’s anatomy” e mi era chiarissimo perché, a parità di ricatti emotivi e di handicap della messinonda su una rete generalista (in America sono entrambe di Abc), “This is us” venisse riempita di premi e “Grey’s” no. Perché “Grey’s anatomy” è l’ultimo lascito tocquevilliano. È l’ultima drammaturgia che, in un mondo in cui l’intrattenimento è dominato dal terrore di spaventare il pubblico, di complessarlo, di farlo sentire non all’altezza, crede nell’eccezionalismo americano.

Penso a “Grey’s anatomy” ogni volta che qualcuno non sa fare il suo lavoro, in ospedale o altrove, e cioè ogni minuto d’ogni giornata in questa epoca di diffusa di sciatteria. Penso alla truffa che è farci credere che questi chirurghi – che come l’essere umano medio pensano solo ai loro svenevoli sentimentalismi, ai loro traumi infantili, alle loro piccole delusioni – siano poi in grado di farsi venire idee geniali con cui salvano la vita a pazienti dati per persi.

Nell’esplosione della bombola resta gravemente ferito l’ortopedico che ha figliato tempo addietro con la neurochirurga (“Grey’s anatomy” è come la sala stampa di Sanremo: prima o poi tutti sono andati a letto con tutti): lei piange pensando che è cresciuta orfana di padre e non vuole che questa infanzia che è destino tocchi anche a suo figlio, ed è in questo uguale alla lagnosa spettatrice media o al lagnoso personaggio di “This is us”. Però poi è in grado di operare qualcuno d’inoperabile: la sua identità non è tutta trauma e lagnosità e infanzia che è destino.

Ho un amico con cui ogni tanto discutiamo del disastro della classe dirigente, e siamo d’accordo su una cosa: non ce ne importa più niente di destra e sinistra, programmi di governo, idee sulla scuola o sulla sanità o sull’economia; se appena appare all’orizzonte qualcuno che sembri non essere scemo, lo votiamo chiunque sia, qualunque sia la sua ideologia. Solo che uno non scemo non appare mai. Ogni mattina apro i messaggi e ci trovo, che ne so, un TikTok di Trump che dice ho salvato TikTok e quindi voi giovani dovete essermi grati, o un TikTok di Bonelli che dice che loro (loro chi?) sono pronti a portare l’avviso di sfratto a Giorgia Meloni, e penso niente, ovunque ti volti sono scemi. Ma non sono quelli i messaggi peggiori.

Sono quelli che contengono, per esempio, articoli sul centenario della nascita di Margaret Thatcher (sarà lunedì), e io non sono pronta a rimpiangere la Thatcher, già ci è toccato rivalutare Berlusconi, quest’epoca di scemi che fa emergere qualunque trascorso normodotato come illuminato statista è sfinente.

Tuttavia, come dimostra il fatto che “The pitt”, oggetto mediocre ma nuovo e scintillante e di provenienza fighetta (Hbo), abbia più gloria di “Grey’s anatomy”, l’avvento del non scemo sarebbe inutile: prenderebbe quattro voti, due dei quali mio e del mio amico.

L’altro giorno parlavo con qualcuno che lavora coi comici trentenni che vanno di moda in questo periodo, e diceva che è impressionante quanto sono scarsi, quanto non fanno ridere, quanto non hanno presenza scenica, «poi rivedi un Beppe Grillo di quarant’anni fa e ti senti male dalle risate». Forse, concludeva, è una buona notizia che siano così scarsi: nessuno di loro sarà in grado di convincerci della sensatezza d’un movimento politico di scemi. Il futuro è luminoso: saremo governati da scemi troppo scemi per convincerci d’essere intelligenti.

Il metodo è l’economia, diceva la Thatcher, e l’obiettivo è cambiare i cuori e le anime. Per i suoi cent’anni è cambiato tutto cioè niente, baronessa: ora il metodo è TikTok, e l’obiettivo è venderti un corso d’autostima, un cosmetico, un’infanzia felice retroattiva, una serie scema che ti faccia sentire intelligente. Quindi sì, sempre l’economia, e sempre fingere di mirare ai sentimenti.

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