Robert Redford era il testimone irripetibile del nostro Novecento

Settembre 17, 2025 - 21:30
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Robert Redford era il testimone irripetibile del nostro Novecento

Il primo messaggio che ho scritto, quando ho letto che era morto Robert Redford, è stato a un’amica che di recente mi aveva ricordato quell’anno assurdo che cominciò con la morte di David Bowie e finì con quella di Carrie Fisher (anzi: di Debbie Reynolds), con in mezzo chiunque, da Leonard Cohen a Prince, da George Michael a Muhammad Ali. Le ho scritto: il 2025 è il nuovo 2016.

C’è anche la possibilità che sia sempre così, d’ora in poi. La prima generazione del pop è nell’età in cui si muore di vecchiaia, e noialtri che quella generazione l’abbiamo consumata in replica o in coda, ereditata dalle sorelle maggiori o dai genitori o dagli amici più grandi, a noialtri ormai tocca la morte d’un poster a settimana.

A volte sapevamo che erano il nostro poster, a volte no: Baudo no, Redford sì – per evidente abisso estetico ma anche perché quando muoiono i Baudo e i Fede muoiono pezzi di paesaggio che hai dato sempre per scontati, mica strafighi che ti facevano sospirare.

Nessuna morte di poster dice cose del poster: dicono cose di noi. Per esempio – sto scrivendo senza aver letto ancora nessun coccodrillo – sono abbastanza certa che di Redford citeremo tutti quattro o cinque film. Non perché non abbia fatto film meritevoli in quantità maggiore, ma perché una volta lo star system era un portato delle opere: se fai “Butch Cassidy”, poi potresti anche per tutta la vita non fare altro.

In un articolo recente ho scritto che “I tre giorni del condor” è un film orrendo: non ho ricevuto tanti messaggi maschili offesi neanche le volte che ho scritto che bisogna essere scemi per interessarsi al calcio. Ribadisco che è un film orrendo, ma ventiquattr’ore prima che Redford morisse il Financial Times ha pubblicato un articolo sul tentativo impossibile di procurarsi una giacca come quella che aveva lui in quel film, e questo nonostante “I tre giorni del condor” abbia cinquant’anni: sia cioè di un’epoca in cui non c’erano milioni di siti da riempire e il feticismo per i vestiti dei personaggi di fantasia non era ancora un’invenzione di giornalisti alla disperata ricerca di clic. Quello sulla giacca di Redford sembra un pezzo copia dei mille che leggiamo sui vestiti di “Sex and the city”, e io invece credo che risponda a una domanda che i maschi (e forse anche qualche femmina che tenta di fare vestire meglio il marito) si sono fatti davvero.

Robert Redford piaceva alle femmine perché era una femmina. Come una femmina assecondava la nostra fantasia giovanile in cui lui è sarcastico e strafigo, e lei goffa e non la bella del ballo ma con una storia d’amore che lèvati (“Come eravamo”, “La mia Africa”).

Come una femmina aveva il complesso d’essere valutato innanzitutto per l’aspetto (un po’ ce l’aveva anche Paul Newman), e la smania di dimostrare di non essere solo una bella bionda. Guardatemi, sono impegnato politicamente prima di George Clooney. Guardatemi, sono ambientalista prima di Leonardo DiCaprio. Guardatemi, peroro la causa dei film indipendenti prima che sia una moda sputtanatissima. Il Sundance, il festival che prendeva il nome dal suo personaggio in “Butch Cassidy” e aveva fatto più di chiunque (facciamo pari merito con Harvey Weinstein) per rendere appetibile il cinema d’autore, il Sundance era il suo «Guardatemi il cervello, non le tette».

È l’estate del 1990, sono ai Caraibi coi miei genitori, e una mattina nella sala colazioni ci sono solo due tavoli occupati: in uno noi, nell’altro Robert Redford e Sonia Braga, con cui è all’epoca fidanzato. Ho diciassette anni: Redford è Anson Hunter, anche se questa cosa la capisco solo io (“Come eravamo” era tratto da un romanzo del 1972, ma io sono convinta da quando al liceo uno che mi piaceva mi fece leggere un racconto di Francis Scott Fitzgerald intitolato “The rich boy” che l’Anson Hunter di FSF abbia originato l’Hubbell di “Come eravamo”; sono passati trentacinque anni: ne sono ancora convinta).

Ma “Come eravamo” ha la mia età: il Redford al tavolo d’angolo ha diciotto anni in più rispetto a quello che sono abituata a vedere sullo schermo. Compie 54 anni in quei giorni. Adesso, che ho un anno meno della sua età d’allora, ripenso alla me che torna in Italia, inizia l’ultimo anno di liceo, e lo passa a dire alle amiche sceme quanto lei «Non sai quant’è vecchio Redford, un reticolo di rughe». Adesso, che sono una femmina che se qualcuno osasse darle della vecchia potrebbe piantare un casino e urlare al sessismo e alla discriminazione, adesso so quanto sia stato difficile per Redford essere stato una bella bionda senza il vantaggio di far parte d’una categoria protetta dalle critiche.

Poi certo, la carriera di Redford. Sul New York Times c’è un’intervista a Cameron Crowe, racconta che ha incontrato Clint Eastwood a una cena e quello gli ha detto che tra cent’anni studieranno la carriera di Tom Cruise. Mi viene in mente perché di recente ho rivisto “Leoni per agnelli”, che è un filmone, e se si dovesse parlare delle volte in cui anche Tom Cruise ha voluto fare non le sparatorie da grandi incassi ma dimostrare di poter essere un attore cerebrale e di sapersi far dirigere dai grandi maestri (Redford aveva passato i settanta, e da bella bionda aveva avuto, nel mansionario, lo scatto a venerato maestro), sì, allora lo citeremmo; ma a nessuno verrebbe in mente di elencarlo tra i più rilevanti titoli della filmografia di Redford, uno che ha fatto “La stangata” e “Il grande Gatsby”, “Tutti gli uomini del presidente” e “Quiz show” (a mio parere, più sottovalutato film di Redford: aveva già fatto “Gente comune”, quindi non eravamo più stupiti che la bella bionda sapesse fare il regista, e ci siamo distratti – ovviamente non sta su nessuna piattaforma, quindi potete recuperarlo solo se siete gente che adopera ancora i dvd).

Ma, mi scuso per il sessismo, innanzitutto e principalmente, assai prima della filmografia, la bellezza di Redford. Il tizio del Financial Times, con tempismo sfigatissimo, ha scritto che Redford non aveva voluto dargli un’intervista sulla giacca «nonostante la mia persistenza». Quindi la giacca se l’era fatta spiegare dal costumista, Joseph Aulisi. Che gli aveva detto che lui e Pollack avevano deciso che il personaggio avesse uno stile simile a quello di Redford, ma meno soldi per il guardaroba.

Nell’articolo c’era una foto dal set, aveva lo splendore del bianchennero e del divismo d’una volta (le foto paparazzate di Redford, che in questi giorni riempiranno i giornali, sono sovente di Ron Galella, testimone di quel pezzo irripetibile di Novecento in cui tutto confluiva: il benessere economico, la sperimentazione culturale, lo star system, la nostalgia che già intravedi nella meraviglia del presente).

Soprattutto, non era una foto che hai visto milioni di volte su siti da riempire con le foto di set tutte uguali di film che escono in numero insensato nonostante non esista più un pubblico. Lo so che il Financial Times l’ha scelta solo perché si vede bene la giacca, ma Robert Redford e Sydney Pollack che chiacchierano sono quella cosa che cantava Guccini: nel sole dei cortili i tuoi fantasmi giovanili corron dietro a delle Silvie beffeggianti.

Che poi è lo stesso effetto che fa forse la più famosa, di sicuro la più stravista foto di Redford: lui e Newman mezzi nudi che giocano a ping pong in una pausa di lavorazione di “Butch Cassidy”: non c’è nessuno al mondo che negli ultimi cinquantacinque anni abbia visto quella foto e non si sia sentito male per la fighezza. Effetto di quei due, ma anche del fatto che non eravamo tempestati di immagini. 

Quando il tizio del FT gli chiede quanti anni abbia, il costumista del “Condor” dice che è in un punto imprecisato «tra i quaranta e la morte», ed è solo oggi, rileggendolo a Redford morto, che mi rendo conto che quella è l’età che ha sempre avuto Redford. Quando era un eroe romantico trentenne in “A piedi nudi nel parco”. Quando, sessantenne, lasciava vedova Michelle Pfeiffer facendoci piangere moltissimo in “Qualcosa di personale”. Non è mai stato un ragazzino. È sempre stato d’un’età imprecisata tra i quaranta e la morte. Adesso è uscito da quella zona di fighezza senza tempo, e ci ha lasciate qui, sole con gli Chalamet che non hanno fascino: in compenso hanno uno stylist, se ci serve un’intervista sulle giacche.

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