“San Damiano”, il documentario dentro la vita di un senzatetto a Roma

Ottobre 9, 2025 - 16:30
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“San Damiano”, il documentario dentro la vita di un senzatetto a Roma

«Loro credono: “Dio fantastico, Dio bello”. Dio è un diavolo. È un diavolo», dice Damiano, trentacinque anni, il re di Roma Termini, senzatetto polacco che vive in cima a una torre sulle antiche mura romane di fronte alla stazione. È lui il carismatico protagonista di San Damiano, il documentario indipendente proiettato la sera del 6 ottobre al cinema Mexico di Milano, e che verrà distribuito in molte sale d’Italia verso le 20:30 di venerdì 10 ottobre, in occasione della Giornata mondiale della salute mentale e delle persone senza fissa dimora. Alla proiezione di lunedì erano presenti, oltre a uno dei due registi, Gregorio Sassoli, il monsignor Davide Milano, presidente della Fondazione Ente dello Spettacolo, e Stefano Lampertico, direttore di Scarp de’ tenis, il mensile che dal 1996 racconta la vita di strada.

Stefano Lampertico, direttore del trentennale mensile “Scarp de’ tenis”

«È una storia che ha dentro un urlo: io ci sono, io esisto. Vi auguro di esserne disturbati», dice Milani introducendo il documentario. «Nessun senzatetto vive in strada per scelta: è una vita durissima, fatta di fame, di scontri, di solitudine. E forse è proprio la solitudine, il peggiore dei mali. Più della povertà. Sono persone in cerca anche solo di un brevissimo momento di relazione», aggiunge Lampertico.

La situazione italiana delle persone senza fissa dimora, effettivamente, è drammatica: l’ultima indagine Istat del 2021 ne ha contati quasi centomila. Il trentotto per cento stranieri, metà di questi provenienti dall’Africa. Ci sono donne che vivono per strada, ragazzi, minori non accompagnati. È una realtà che rimane fuori dai canali del mainstream, ma che va esplorata. «Il film lo fa in modo diretto, crudo quanto la vita che racconta, e lo fa attraverso gli occhi dei protagonisti», prosegue Lampertico.

Il microfono passa a Gregorio Sassoli, che presenta brevemente la pellicola raccontando dell’incontro casuale con Damiano, di come col tempo sia diventato un Virgilio attraverso i gironi infernali della vita di strada, introducendo lui e il collega regista al resto della varia umanità che gravita attorno alla stazione di Termini: «Persone che stanno ai margini dei margini», quelle che non vengono raggiunte dalle associazioni assistenziali, o di cui rifiutano l’aiuto.

Una scena del documentario: Damiano si stringe a un palo, mentre nel cielo esplodono fulmini

«Sono partito dalla Polonia. Da sempre volevo venire qua, a Roma»: la voce fuoricampo di Damiano accompagna le prime immagini del documentario. Immagini subito dure, di grave abbandono e marginalità sociale. Poco dopo troviamo il protagonista nella torre romana che ha trasformato in dimora: eccolo al sole in mutande, beato come un dio, intento a radersi le braccia. Tutti i giorni sale e scende di lì arrampicandosi sulle tubature metalliche del ponteggio a ridosso del bastione.

Mostra i tatuaggi, Damiano: quello sulla pancia a forma di croce, «in memoria di un grandissimo amico mio morto in un incidente con me. Ho preso tre anni di condanna per lui, tre anni di cancello». Il corpo, oltre all’inchiostro nella carne, porta i segni di quella vita da lupo solitario al limite della sopravvivenza, dove «o mangi o vieni mangiato», come dice un suo amico, venti punti nel braccio e il tendine del pollice saltato in una rissa corpo a corpo.

«Il bastardo mi ha cominciato a coltellare. Lui mi voleva uccidere», dice concitato Damiano, esibendo a favor di camera le cicatrici, compresa quella sulla coscia: «Un poco più in qua e mi tagliava l’aorta». Racconta questo con rabbia; ma è una rabbia che fa tutt’uno con la foga, la passione che mette in qualsiasi cosa, una rabbia che fa tutt’uno con la sua gioia di vivere.

In Polonia era curato in un ospedale psichiatrico. Da lì il viaggio in Italia, che lo porta dapprima in Calabria e poi nella capitale. Qui incontra una comunità di solitudini come la sua. Gli altri, i coprotagonisti del racconto.

C’è Christopher: anch’egli un ragazzo slavo, è diventato grande amico di Damiano, e spesso lo va a trovare nel suo castello. Sentendosi ripreso dalla telecamera, a un certo punto, sussurra nella sua lunga: «Questi penseranno che siamo barboni». Damiano ride: «Mi fa stare bene, anche se è stupido. È il mio Christopher, il mio grande amore». Con lui condivide il desiderio di diventare un musicista, un rapper, vede in questo un importante sfogo artistico e una possibilità di riscatto: «Voglio fare i concerti in Italia. Cantiamo insieme, come fratelli, come angeli».

Come angeli: nella bocca di Damiano le parole scorrono a briglia sciolta, sempre cariche di energia. La follia, a tratti, si tramuta in poesia. In poesia sporca, sgrammaticata, underground; una poesia coi tagli e gli occhi pesti dalle botte, una poesia vera. E vicino a Christopher, col suo accento slavo grida: «Siamo amici, sempre positivi, sempre creativi e ambiziosi. E siamo cazzo vivi».

C’è Sofia, una donna africana che passa la vita a chiedere l’elemosina ai semafori, e ogni tanto si prostituisce. È forse la persona più autenticamente vicina a Damiano: «Ha avuto una vita difficile», racconta. «L’hanno molestato anche lui quando era piccolo. Un uomo l’ha molestato. E sua madre l’ha tradito come mia madre mi ha tradito a me», continua Sofia.

Anche lei è stata vittima di abusi sessuali, cosa frequente nell’anarchia della vita di strada: «Quattro volte dove uomini mi hanno violentato». Sofia è madre: «Il giorno più bello della mia vita, quando sono diventata madre. Era un amore che non ho mai provato, un paradiso. E ho smesso di fare droga e alcol. Tre anni dopo hanno tolto i miei figli. È meglio se non provo niente, se non penso a loro, perché non voglio tornare nel buio».

Lei e Damiano hanno una sorta di relazione: «Per me lui è mio marito», dice, «nessuno mi ha mai amato come lui mi ama». Ma è un amore sull’asfalto, il loro, fatto sì di aiuto reciproco, compagnia e rapporti sessuali su materassi trovati ai margini della strada, ma anche di violenza e percosse: lei spacca la bottiglia e colpisce Damiano, facendolo sanguinare copiosamente; lui qualche tempo più tardi si sveglia alle due di notte, la pesta e la caccia via dalla torre. «Ha questo problema con lo stress e la rabbia», lo perdona lei: «Lo prendo perché lo amo».

Resta però un’incolmabile solitudine di fondo, in questo bisogno d’amore ricambiato fra pugni: «Per tutta la vita sono stato odiato, maltrattato. Mi odiano tutti quanti. A me non mi ama nessuno», dice Damiano in un momento di tristezza.

Un’altra scena del documentario: Vikas, uno dei tanti senzatetto che popolano la pellicola, ha appena distrutto i finestrini dell’auto parcheggiata e se ne gloria stando in piedi sul tettuccio

Poi ci sono tutti gli altri: Alessio, Dorota, Juan, Ibrahim. Chi porta una benda sull’occhio da pirata, chi ha il naso gonfio perché è stato corcato o per il troppo vino, chi ormai può contare solo qualche dente in bocca. Tutti coi volti scavati dalla fame, dalla droga, dall’alcol, dal catrame e dallinfinita stanchezza. Fra loro c’è amicizia, ma anche rivalità: la solidarietà, in strada, deve farsi largo tra furti reciproci del poco che hanno, botte e minacce di morte. E a tratti diventa proprio lo stato brado: mors tua vita mea.

«Siamo a Roma Termini. Siamo in mezzo alle bestie, qua. Ho girato tante stazioni, ma Termini… lascia perdere. È la merda della merda», racconta uno di loro. Anche il “protagonista” è indeciso tra bontà e cattiveria: «Mamma, io non so cosa devo scegliere. Essere un dio o un diavolo? Se sarò un dio, mi uccideranno subito. Però, mamma, se io sarò un diavolo, avranno paura di me».

In questa spietata giungla urbana, Damiano oscilla tra sprazzi di entusiasmo e momenti di grande depressione: «Certe volte hai voglia di morire, o di far vedere che cazzo vale la tua vita», racconta dalla sua torre. La sua torre: «Io non sono un barbone. Io soffrivo la povertà, guadagnavo venticinque euro al giorno e lavoravo dalle sei, certe volte dalle cinque, fino alle ventidue, kurwa. Non si può dire che sono un barbone, perché mi pulisco, sto bene, ho un letto, sto in una specie di casa, in un castello quasi».

Il documentario finisce dopo un crescendo e un colpo di scena, ma no spoiler. Luci in sala, il pubblico è ancora scosso dalla pellicola, un silenzio raccolto, e impressi rimangono gli ultimi due versi della poesia di Alda Merini con cui si apre la pellicola: «Sai che il tormento è una voce? Sai che il dolore canta?».

Gregorio Sassoli. Insieme ad Alejandro Cifuentes, è il regista del documentario “San Damiano”

«Ci siamo avvicinati gradualmente a questo mondo come volontari», spiega in coda il regista. «Quel che abbiamo notato è che non era tanto importante il solo portare un pasto o la coperta: l’esigenza più forte era quella di parlarci, di raccontarsi. Quando siamo tornati con una telecamera, tutti hanno scelto di mostrarsi in un certo modo». A un certo punto, ad esempio, un ragazzo tira due gomitate contro ai finestrini di una macchina, mandandoli in mille pezzi: «Nel momento in cui è stato ripreso, ha voluto mostrare più o meno inconsciamente la rabbia che ha nei confronti della società civile che lo ha escluso».

Stefano Lampertico risolleva il tema dell’invisibilità, e Gregorio Sassoli sottolinea un aspetto affascinante del documentario: «Abbiamo reso visibili gli invisibili e invisibili i visibili, ossia la gente che a Roma Termini ci va per prendere il treno. Sono due mondi che si sfiorano e che raramente si toccano, in quella stazione».

Lampertico, direttore del periodico che racconta da trent’anni la vita di strada, Scarp de’ tenis, evidenzia quanto il documentario sia testimonianza verista di ciò che succede anche a Milano, per poi portare il discorso sulla frequente sovrapposizione di marginalità e malessere psichico: «La situazione di povertà molto spesso si accompagna a disturbi di salute mentale, a disturbi psichiatrici, a difficoltà relazionali».

Un mondo sicuramente molto difficile, in cui però, come dice lo stesso Damiano, «c’è il buono e c’è il male, c’è l’inferno e c’è il paradiso». E soprattutto, pur nel dolore, «siamo cazzo vivi».

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