Sfilate di Parigi: l’armonia degli eredi

C’era una volta il direttore creativo come un Tyrannosaurus Rex: giovane, affamato e destinato a divorare chiunque lo avesse preceduto per lasciare il segno con uno sterminio stilistico. La sua unica legge era la disruption, il suo unico omaggio, l’oblio. Quest’anno, sulle passerelle di Milano e Parigi, quel dinosauro è apparso improvvisamente estinto. Al suo posto, una schiera di autentici demiurghi (non semplici stilisti, ma creatori di mondi) ha declamato un nuovo, inatteso verbo: la continuità.

È il trionfo di un’eleganza intellettuale che, anziché sradicare, innesta. Un gesto che è, insieme, di profondo rispetto e di calcolatissima strategia, in un’epoca in cui il futuro appare così minaccioso che l’unico rifugio possibile sembra essere una rilettura colta del passato. Il gesto più cool e persino rivoluzionario oggi pare essere quello di abbracciare il lavoro di chi li ha preceduti. Pierpaolo Piccioli – appena insediato da Balenciaga – lo ha dichiarato senza mezzi termini: per lui rendere omaggio a Cristóbal Balenciaga, Demna Gvasalia e persino a Nicolas Ghesquière è «più rivoluzionario che negare ciò che è venuto prima». In un’industria ossessionata dal nuovo-che-contraddice-il-vecchio”, stiamo assistendo a un rovesciamento dialettico: non demolisce, rielabora.
È la fine della creatività distruttiva e il trionfo di una continuità fertile, su cui coltivare un proprio linguaggio. Certo, la moda ha sempre oscillato tra rottura e tradizione. Ma quest’ultima stagione di sfilate – affollata di debutti epocali – sembra segnare un momento di trasformazione pacifica. I nuovi capitani della moda non rinnegano i predecessori come avrebbero fatto un tempo; piuttosto ne studiano l’opera e ne ripropongono i tratti migliori con rispetto filiale e astuzia creativa. Viene da pensare a un Congresso di Vienna sartoriale, dove invece di riscrivere confini si riallacciano fili estetici spezzati. In un’epoca di turbolenze globali e ritorni di fiamma conservatori in politica, la moda risponde con un desiderio di radici sicure e riconciliazione culturale. Ricordare è il nuovo innovare.

Da sinistra: un vestito disegnato da Cristobal Balenciaga nel 1951 e un look dalla sfilata Balenciaga P/E 2026 by Pierpaolo Piccioli (Bill Brandt/Getty Images – Lunchmetrics Spotlight)
La riconciliazione come atto rivoluzionario
Pierpaolo Piccioli, nel suo debutto per Balenciaga, non ha semplicemente presentato una collezione; ha orchestrato una cerimonia di riconciliazione. La scelta della location, il 40 di Rue de Sèvres, L’ex ospedale Laennec, “l’ospedale degli incurabili”, poi cuore di Kering, è un primo, fondamentale atto simbolico. È un luogo che, come un palinsesto, racconta secoli di storie: di malattie, di educazione, di ascolto (il medico Laennec inventò proprio lì lo stetoscopio). Piccioli sceglie di iniziare esattamente dove il suo predecessore, Demna, aveva finito, in un «ideale passaggio di testimone». La sua non è stata un’operazione di vintage o di citazionismo fine a se stesso. Non un omaggio, ma appunto, una «riconciliazione con tutto quello che c’è stato prima». Ha studiato l’architettura di Cristóbal, il quale liberava le donne usando come “terzo elemento” tra corpo e tessuto l’aria. Piccioli riprende questa lezione, rendendo l’aria un «metodo del processo creativo». I volumi degli abiti, il leggendario gazar riproposto in doppio strato di garza e organza, tutto è studiato per un’assenza di peso che è, allegoricamente, un’attenzione alle esigenze di chi indossa. E il tributo si estende alla storia recente: i cappelli da fantino di Nicolas Ghesquière e gli occhiali a mascherina di Demna compaiono in passerella, in un gesto che non è di sudditanza, ma di consapevole inserimento in una linea di trasmissione. È un’operazione che ha il coraggio della leggerezza in un mondo che celebra la pesantezza, e dimostra come la vera ribellione possa essere, talvolta, un abbraccio.
Matthieu Blazy e i pianeti allineati
Chanel ha riscoperto la sua anima cosmica grazie a Matthieu Blazy. Il suo debutto come direttore artistico della maison – uno degli eventi più attesi della Paris Fashion Week – si è rivelato letteralmente fuori dal mondo: Blazy ha trasformato il Grand Palais in un sistema solare scintillante, con pianeti giganti sospesi e un’atmosfera lunare. Questa scenografia galattica ha immediatamente riportato alla mente le spettacolari mise-en-scène di Karl Lagerfeld, maestro indiscusso nel creare universi per Chanel (chi può dimenticare il set della sua ultima sfilata per Chloé e il razzo spaziale che decollò dal Grand Palais nella A/I 2017?).

Karl Lagerfeld alla fine della sua sfilata A/I 1997 per Chloé (Photo by Victor VIRGILE/Gamma-Rapho via Getty Images)

La scenografia della sfilata P/E 2026 di Chanel by Matthieu Blaz (Lunchmetrics Spotlight)
Blazy ha dunque allineato i pianeti con intelligenza, omaggiando Karl sul piano dello show e dell’immaginario. Ma l’omaggio di Blazy è duplice: non c’è solo Lagerfeld. La collezione, infatti, è costellata di riferimenti amorevoli a Gabrielle “Coco” Chanel stessa. Blazy ha dichiarato di essersi ispirato a un dettaglio della fondatrice: Coco amava rubare gli abiti dal guardaroba del suo amante, il duca di Westminster. Blazy riprende questa intuizione con i primi look della sfilata, caratterizzati da un piglio boyish: pantaloni fluidi, camicie maschili realizzate con lo storico camiciaio Charvet (cui si serviva la stessa Mademoiselle Chanel).
È come se Matthieu avesse fatto dialogare Coco col suo compagno in un gioco di scambi di identità, sottolineando il paradosso Chanel: emancipata e androgina, ma al tempo stesso seduttiva e femminile. Una serie di abiti bianchi profilati di nero ha ricordato immediatamente le celebri ballerine bicolori di Chanel e lo stile personale di Gabrielle, ma sono bastati per evocare l’eleganza essenziale di Karl, quella linea grafica che definiva i suoi tailleur e accessori. Blazy insomma rispetta i codici della maison, ma li reinterpreta con leggerezza: rende il tweed più fluido e sbarazzino, reinventa la camelia trasformandola in un motivo astratto e appuntito.

Da sinistra: un look P/E 2026 di Chanel e la sfilata 1984 by Karl Lagerfeld (Lunchmetrics Spotlight – Getty Images)
Dario Vitale e la dissacrazione come messaggio
Passiamo da Parigi a Milano, dove un altro debutto ha fatto parlare per la sua operazione di restauro creativo. Alla guida di Versace è arrivato Dario Vitale, ex design director di Miu Miu, il primo “esterno” alla famiglia a succedere a Donatella Versace. E per la sua collezione d’esordio Primavera/Estate 2026 Vitale ha scelto di guardare non tanto alla stilista uscente, quanto direttamente al mito di Gianni Versace. «Mi sono ispirato all’atteggiamento audace di Gianni negli anni ’80”, ha dichiarato. In effetti, lo show sembrava un viaggio nel tempo nella Milano edonista dei Fantastic Eighties.
In passerella abbiamo visto bomber oversize coloratissimi, jeans stampati a vita alta, vestiti sgambati e tagliati sul dietro come quelli che Gianni portò in passerella nel 1989, spalle importanti e tanta, tanta pelle. Vitale ha avuto accesso all’archivio personale di Gianni Versace e ne ha tratto ispirazione a piene mani: più che copiare dei capi specifici, ha voluto recuperare “lo spirito Versace”, quel mix di sensualità liberata e ferocia tutta italiana ma sempre sorvegliata, “sempre in controllo». Per enfatizzare il distacco dalla recente era Donatella (fatta di glamour patinato e perfezione da red carpet) Vitale ha persino inscenato un piccolo sabotaggio visivo: la sfilata, tenutasi nelle sale opulente della Pinacoteca Ambrosiana, era disseminata di segni di disordine: un letto sfatto al centro, bicchieri vuoti, posacenere colmi, pillole per il mal di testa rovesciate sui tavoli.

Da sinistra: un look Versace P/E 2026 e la sfilata Autunno Inverno 1992 di Gianni Versace (Art Streiber/Penske Media via Getty Images – Lunchmetrics Spotlight)
Mugler: piume di fenice. Freitas tra Thierry e Casey
Anche la maison Mugler – altro storico nome del lusso francese – ha voltato pagina all’insegna di una continuità rigeneratrice.. Il debutto di Miguel Castro Freitas, in un cupo parcheggio sotterraneo trasformato in passerella, è stato un’ode al prezioso archivio della maison. Ora la donna Mugler sembra più adulta, consapevole dell’eredità che indossa. Freitas non ha inseguito facili ammiccamenti Gen Z, bensì ha cercato un terreno comune con Thierry Mugler stesso, condividendone la devozione per il cinema e la teatralità.
La collezione P/E 2026 di Mugler by Freitas ha letteralmente riaperto il vecchio copione di Monsieur Thierry, mettendo in scena tutti i suoi colpi da maestro: spalle scolpite, vite strizzate, vinile e latex lucidi. Va detto che Casey Cadwallader non è stato dimenticato: se Thierry Mugler portava in scena fantasie di robot, animalier e femme fatale usciti dai fumetti, Cadwallader negli ultimi anni aveva attualizzato quel lascito puntando su un’estetica fetish-sportiva -bustier in spandex, ritagli audaci sulle tutine elastiche, richiami S&M. Freitas, succedendogli, avrebbe potuto rinnegare del tutto quella parentesi, e invece qualche eco rimane. Ad esempio, in passerella c’erano tutine in latex nero abbinate a imponenti silhouette piumate: un chiaro ponte tra l’era Cadwallader (regina delle bodysuit di latex) e l’era Mugler originale (con le sue gigantesche ali e code di pavone). È come se avesse preso il vocabolario di ieri e lo avesse utilizzato per scrivere una nuova sceneggiatura.

Da sinistra: Mugler Couture Autunno Inverno 1997 by Thierry Mugler e un look dalla sfilata Mugler P/E 2026 by Miguel Castro Freitas (Pool PAT/ARNAL/Gamma-Rapho via Getty Images – Lunchmetrics Spotlight)
Loewe: i Proenza boys e la lezione di JW Anderson
Talvolta la riconciliazione con il passato assume toni da passaggio cavalleresco. È il caso di Loewe, storica casa spagnola, che dopo quasi undici anni sotto la guida innovativa di Jonathan Anderson si è trovata di fronte alla partenza del suo amatissimo direttore (volato a Dior, come vedremo). Al suo posto, a sorpresa, sono arrivati Jack McCullough e Lazaro Hernandez, ovvero il duo dietro Proenza Schouler, simboli della moda newyorkese cool. I Proenza Boys (come affettuosamente chiamati oltreoceano) hanno scelto la via dell’elegante continuità pragmatica: onorare l’eredita di JW mantenendo qualche stravaganza, ma riportando Loewe a un guardaroba più New York se vogliamo, senza però tradirne l’identità.
I due hanno aperto la sfilata con un giubbotto in pelle nera dalla vaga linea a clessidra, un tributo sottile alla tradizione pellettiera di Loewe (nato come selleria di lusso a Madrid nell’800). La pelle rigida manteneva la forma quasi da sé, come a dichiarare: “qui la materia e l’artigianato guidano la forma”. Era un cenno rispettoso sia al savoir-faire storico che allo stesso Anderson, che aveva fatto del lavoro sui materiali un feticcio (celebre la sua ossessione per il cuoio intarsiato e le superfici innovative). Loewe entra in una nuova era senza crisi d’identità, anzi con una sorta di continuità evolutiva. Jonathan Anderson non sarà “dimenticato” – come potrebbe, con le sue Puzzle bag e il suo spirito tuttora presente in casa LVMH? – ma viene omaggiato nel migliore dei modi: portando avanti la sua eredità e facendola fruttare.

Da sinistra: Loewe Primavera Estate 2023 by Jonathan Anderson e Loewe P/E 2026 by Jack McCollough e Lazaro Hernandez (Lunchmetrics Spotlight)
Dior: JW Anderson e i fantasmi dello stile
Tempo fa, in questi casi, la regola non scritta era: mai nominare i tuoi predecessori, soprattutto se sono leggende. Ma Jonathan Anderson, direttore creativo di Dior ha deciso di infrangere anche questo tabù. Il suo debutto si è aperto con un gesto teatrale di memento storico: un cortometraggio proiettato su un’enorme piramide invertita al centro della sala. Firmato da Adam Curtis, il video montava freneticamente spezzoni di film horror con immagini di archivio di tutti i direttori creativi che hanno preceduto Anderson da Dior. In rapida successione sono apparsi Yves Saint Laurent, Marc Bohan, Gianfranco Ferré, John Galliano, Raf Simons, Kris Van Assche, Kim Jones, Maria Grazia Chiuri – praticamente un Who’s Who della moda anni Sessanta-Duemila accanto allo spettro immortale di Monsieur Christian Dior in persona e persino a Marlene Dietrich (musa e amica di Dior) in un fotogramma d’epoca. Un’invocazione degli spiriti dell’alta moda, un esorcismo o forse un rito scaramantico per scacciare la paura? Non per nulla la prima frase che compariva nel filmato era una domanda provocatoria: «Hai il coraggio di entrare nella casa Dior?».

Da sinistra: Dior Primavera Estate 2026 by Jonathan Anderson e Dior Haute Couture Autunno Inverno 2005 by John Galliano (Giovanni Giannoni/WWD/Penske Media via Getty Images – Lunchmetrics Spotlight)
Un momento di vulnerabilità disarmante e brillante insieme: far vedere di non temere i fantasmi (anzi, di dialogare con loro), è un atto di umiltà e audacia raro. E infatti, finito il video, la collezione è partita dimostrando subito che il nuovo direttore conosce e ama i codici Dior, ma è pronto a giocarci. Look d’apertura: un abito bianco a campana tipo crinolina (echeggiante la Bar silhouette di Dior 1947) avvolto però da strati di jersey bianco attorcigliato e fermato da due fiocchi. Subito dopo, ecco comparire un tuxedo nero con maxi-peplo fluttuante dietro, portato sopra a un mini di jeans tagliato e a un tricorno concettuale creato dal leggendario cappellaio Stephen Jones. In pochi passi, Anderson ha fatto sfilare riferimenti a Christian Dior (il new look della crinolina), a Hedi Slimane/Kim Jones (il tuxedo sartoriale, l’influenza menswear) e persino a John Galliano (quel tocco piratesco del tricorno – Galliano amava i cappelli storici reinterpretati). Poco dopo spunta inevitabile l’iconica giacca Bar, ma in taglia da bambina. Uno scherzo? Una critica affettuosa alla mania di reverenza attorno a quel capo? Forse entrambe. Il dialogo con i predecessori è continuato in forme sottili. C’era un abitino in pizzo Chantilly nero leggero come una nuvola, che si apriva dietro in due ali di farfalla: un chiaro rimando all’amore di Maria Grazia Chiuri per la lingerie delicata e la trasparenza, che Anderson ha voluto rendere ancora più leggiadra. Un gesto di grande sensibilità: riconoscere che la sua predecessora aveva già liberato Dior dai corsetti e proseguire su quella strada, rendendo il tutto ancor più impalpabile.
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