Vogue, New York, Milano, e altri relitti d’una magnificenza svanita

Dunque il seguito di “Il diavolo veste Prada” avrà delle scene girate a Milano, dopo le moltissime di cui abbiamo già visto immagini mentre giravano a New York, e quelle scene verranno filmate a metà ottobre, quindi la notizia è che, se come tutte le persone civili già evitate Milano quando, durante la settimana della moda, viene invasa da velleitari che venderebbero l’anziana madre per farsi fotografare da The Sartorialist, ora dovrete stare alla larga anche a sfilate finite.
Ma di Milano come set cinematografico parliamo tra un po’, prima vorrei ragionassimo su “Il diavolo veste Prada”: più film in costume di “L’età dell’innocenza”, più film storico del “Gattopardo”. “Il diavolo veste Prada” è del 2006, che non è solo quasi vent’anni fa: è un’altra era geologica.
È un film in cui una ragazza che si trova quasi per caso a lavorare nel più famoso giornale di moda del mondo diventa conseguentemente ambiziosa ed elegante ed efficiente e sofisticata, per molte ragioni, una sola delle quali è che allora Vogue era qualcosa. I giornali erano qualcosa. Persino l’ambizione era qualcosa.
Adesso di quel mondo lì sono rimaste macerie, e sulle macerie festoni colorati, comprati in offerta da Zara. Il romanzo dell’ex assistente di Anna Wintour da cui è tratto il film era bruttissimo, e quindi non è bastato a fornire all’autrice una carriera, ma è bastato a creare un immaginario, grazie alla combinazione d’una sceneggiatura assai migliore del romanzo, d’un monologo scritto all’ultimo minuto (quello del ceruleo), e d’una Meryl Streep in stato di grazia. È un immaginario ormai storicizzato e non più al presente, fatto di wow, la direttrice stronza della rivista di moda, wow, la segretaria inetta che non sa scrivere «Gabbana», wow, le carriere totalizzanti e le donne disposte a tutto per sfondare.
Oggi, la segretaria che viene trattata gelidamente dalla direttrice per cui si sbatte tantissimo direbbe d’avere il burnout, per la segretaria efficiente che mangia un cubetto di formaggio al giorno per entrare nei vestiti con cui andrà alle sfilate di Parigi cianceremmo di grassofobia, e Anna Wintour ha appena mollato il suo posto a Vogue. Non è la seconda parte d’un film: è un film che si svolge in un mondo che non esiste più.
Giorni fa hanno ufficializzato ciò che già sapevamo tutti, che a capo dell’edizione americana di Vogue ora c’è Chloe Malle (figlia di Louis Malle e Candice Bergen), e che Wintour farà la supervisione di tutte le edizioni al mondo. Condé Nast sembra sempre più quelle dimore degli aristocratici decaduti che hanno i soffitti affrescati ma d’inverno tengono spento il riscaldamento perché non saprebbero come pagare le bollette: il relitto d’una magnificenza che fu.
Hanno annunciato che probabilmente Vogue non uscirà più tutti i mesi, che tradotto per il pubblico che non s’intende di giornali significa: non abbiamo abbastanza pubblicità da convenirci stamparlo, con quel che costa la carta. Intervistata dal direttore del New Yorker, David Remnick, Wintour ha spiegato la scelta di Malle dicendo che è la persona più giusta per capire cosa possa essere Vogue «tra due anni – non dico tra cinque o dieci, non ha più senso pensare in quei termini temporali». Anna Wintour non pensa che tra cinque anni esisterà Vogue, ma a qualcuno pare una buona idea fare un seguito del “Diavolo veste Prada” come se quell’immaginario godesse di buona salute.
Quando girarono il primo “Diavolo veste Prada”, non vedemmo neanche un’immagine delle riprese, e non solo perché nessuno sapeva che sarebbe stato un successo. Un altro dei disastri degli ultimi anni è il fatto che sia diventato impossibile filmare una serie o un film all’aperto senza che escano mille immagini. Immagini che nella migliore delle ipotesi rovinano la sorpresa al pubblico cinematografico (parlandone da vivo), e nella peggiore vengono decontestualizzate ed equivocate: una scena di De Niro che filmava “Zero day” nel ruolo di ex presidente degli Stati Uniti venne spacciata per giorni per De Niro che nella vita vera litigava con non so che manifestanti per non so quale giusta o ingiusta causa.
Del seguito del “Diavolo veste Prada” abbiamo visto centinaia di immagini dal set, Meryl Streep e Stanley Tucci sulla scalinata del Metropolitan Museum (dove Vogue ogni anno organizza una festa di beneficenza), Anne Hathaway che esce dagli uffici del giornale, ogni possibile scorcio di New York in cui loro si muovono elegantissime e noi dovremmo crederci. Solo che nel frattempo apriamo il New York Times e ci troviamo la storia della mamma che a Central Park si è ritrovata i ratti nel passeggino dei suoi bambini. Apriamo Instagram e ci troviamo la figlia di Woody Allen che è fuggita dal cinema di Manhattan in cui stava vedendo il nuovo Aronofsky perché tra le poltrone correvano le pantegane. L’incredulità è sempre più difficile da sospendere.
Irene Soave, giornalista del Corriere, ha commentato così, in una storia di Instagram, l’annuncio delle riprese milanesi: «Stamattina ho cercato un taxi per un’ora, il bus è passato dopo 39 minuti, penso che in queste condizioni il manoscritto per le gemelle non lo troverebbe manco il mago Silvan e sogno che brigate di cittadini furenti boicottino olimpiadi e film commission finché non torna una città abitabile, non questa buffonata da parenti poveri che quando arrivano gli zii d’America si vestono eleganti». Nessuna rimostranza circa i topi.
Se non vi ricordate la trama del primo film, il riferimento della Soave è alla parte in cui Miranda Priestly, la direttrice scorbutica con due figlie gemelle, pretende che la segretaria le trovi, per le bambine, le bozze del nuovo “Harry Potter” che ancora non è uscito, e le cui copie di lavorazione sono ovviamente introvabili. La ex ragazza inetta, divenuta efficientissima, le troverà in tempo e le bambine partiranno per le vacanze coi loro libri. Oggi Miranda Priestly avrebbe una segretaria che le dice che “Harry Potter” non va letto perché è di una scrittrice transfobica, e poi si prenderebbe un giorno di permesso per la salute mentale.
Tutti i residenti si lamentano del posto in cui vivono, tranne i bolognesi che hanno la sindrome di Stoccolma e i romani perché pare che i TikTok in cui va nei cantieri abbiano reso popolarissimo Gualtieri tra i bambini, che si vogliono fare anche loro le foto col caschetto giallo. Io però, più che alle invivibilità che lamenta la Soave, ho pensato al fatto che a Milano la produzione cinematografica filma probabilmente una parte ambientata durante la settimana della moda, e la filma non durante la vera settimana della moda perché i prezzi degli alberghi durante la settimana della moda sono troppo alti persino per Hollywood: si spende meno a ingaggiare duemila comparse.
New York non è più quella d’un tempo (qualunque sia quel tempo). Milano non è più quella d’un tempo (qualunque sia quel tempo). Il cinema non è più quello d’un tempo (qualunque sia quel tempo). Vogue non è più quello d’un tempo ma, diversamente da Milano e da New York e dal cinema, è anche l’unico del quale la sua stessa custode abbia annunciato una assai prossima data di morte, ed è anche l’unico che l’iconografia di questo secolo nostalgico si accinga a celebrare.
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