Il censimento in Scozia, e l’abisso culturale degli italiani fluent-in-inglisc

Ottobre 17, 2025 - 09:30
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Il censimento in Scozia, e l’abisso culturale degli italiani fluent-in-inglisc

Cosa vuoi che sia un nome, sospirava Giulietta Capuleti, che aveva tredici anni e quindi era scema come gli scrittori sapevano essere scemi i ragazzini prima di questo secolo beota in cui abbiamo iniziato a trattarli come intellettuali.

Una rosa, diceva la preadolescente che di lì a poco si sarebbe suicidata per uno con cui stava da tre giorni, avrebbe lo stesso profumo con un altro nome: che le parole fossero fatte per capirsi non le era chiaro, un po’ come ai suoi coetanei di oggi, tredicenni pure se magari ne hanno quaranta, che non hanno ancora imparato gli ausiliari ma sono impegnatissimi a togliere le desinenze di genere alle lingue romanze.

I ragazzi di oggi, giurano coloro che s’impegnano a essere ottimisti circa il secolo più scemo della storia dell’uomo, non saranno in grado di leggere un intero libro, ma parlano inglese benissimo. Io trasecolo ogni volta, per una ragione banale: parlano malissimo italiano, che è la lingua con cui sono cresciuti, come possono parlare bene quella che hanno appreso come seconda lingua?

Certo, l’inglese è più facile, non avranno il problema di non riuscire a tenere un registro formale perché non sanno coniugare la terza persona dei verbi, ma insomma «benissimo» mi pare una parola grossa. Però non dico niente per non sembrare un’anziana zitella acida. Poi il Times pubblica un articolo sul censimento scozzese, e rido, e piango.

Premessa per chi ha fatto francese alle medie. Premessa, capirete tra un po’, indispensabile evidentemente anche per chi alle medie ha fatto inglese, e ha fatto inglese pure al liceo e all’università, e in curriculum alla voce “English spoken and written” scrive “fluent”, non potendo scrivere che è analfabeta come d’altra parte lo è in italiano.

“Roma”, oltre a essere il film per cui Cuarón vinse l’Oscar, è una città italiana e un aggettivo inglese. La città italiana è nel Lazio, parla una lingua tutta sua ed è convinta che quella lingua sia italiano, produce la classe dirigente più sfaccendata del mondo, è ingovernabile. L’aggettivo inglese, invece, indica l’essere di etnia rom (da cui appunto il titolo di Cuarón). Una volta avremmo detto zingari qui e gypsy lì, quando le parole erano fatte per capirsi e se dovevi scrivere una storia di amore infelice tra imbecilli quegli imbecilli li facevi adolescenti. Adesso noi adulti d’un secolo perbene diciamo rom qui da noi, e lì dagli anglofoni Roma.

Per non confondersi, gli anglofoni la città di Roma la chiamano Rome, come fino all’articolo del Times pensavo sapessero anche i sassi e quelli che alle medie hanno fatto francese: persino loro sanno che i turisti anglofoni dicono Venice e non Venezia, Florence e non Firenze – no? Evidentemente no.

Tre anni fa, la Scozia fa un censimento. Sono tre anni che ci sono polemiche d’ogni genere sul censimento del 2022, la prima delle quali sul costo: sono riusciti a spendere più del triplo per ogni abitante rispetto al censimento fatto un anno prima in Inghilterra e in Galles, e il doppio di quanto speso da loro stessi nel 2011, oltretutto facendolo online – complimentissimi (ma gli scozzesi non erano tirchi? Sono io che mi ricordo male le barzellette d’infanzia?).

Ma la nuova polemica è assai più utile per capire i nostri (di noi italiani) limiti culturali, quelli che ci affliggono anche quando ci autocertifichiamo fluenti in lingue straniere, e soprattutto quelli ben sintetizzati da Eleonora Giorgi in “Borotalco”: ma se non lo sa lui che in America ci ha vissuto.

Prima era un problema solo degli inviati dei giornali, da quando c’è l’internet incrociamo ogni giorno qualche oriundo (in analfabetese: expat) che ci garantisce che lui sa di cosa parla perché lui lì ci vive. E nessuno ha voglia di mettersi a dirgli: sapessi quanti nel mio codice postale dicono scemenze su cose che dovrebbero sapere del mio codice postale, sapessi quanto stare in un posto non garantisce non solo di capire quel posto ma anche di capire qualcosa in generale.

Ricopio l’incipit del Times, così non soffoco dal ridere nel riformularvelo con parole mie: «Nel disastroso censimento scozzese è emerso un nuovo difetto, allorché si è appreso che gli italiani avevano confuso il gruppo etnico rom [Roma] con la loro capitale». Cos’è successo: sul censimento c’era una crocetta da mettere per specificare l’etnia (ovviamente polemiche anche sull’esistenza della casella dell’etnia, ma non distraiamoci), e quelli nati a Roma hanno messo la crocetta non su Italian ma su Roma.

Perché i romani pensano che Roma sia talmente speciale da meritare una casella a sé, certo. Ma anche perché non si sono mai accorti che, nel paese in cui vivono e nella cui lingua scommetto si dicano fluent, Roma non si chiama Roma ma Rome.

Non si sono neanche mai accorti che il nome italiano (scusate: romano) della loro amata caput mundi in inglese, lingua in cui non so se abbiamo già detto quanto essi siano fluent, è la parola che si usa per indicare i rom. Probabilmente, quando hanno visto le locandine del film di Cuarón, hanno pensato si trattasse d’un documentario sul Colosseo.

Purtroppo né il Times né la Bbc specificano quanti anni abbiano questi portace-’n-artro-litro che pensano la loro città sia un’etnia: se siano questi benedetti giovani che parlano tutti inglese benissimo perché guardano gli youtuber forestieri, o se siano i loro genitori, che non sanno ordinare una bistecca al sangue in inglese ma nei curriculum giurano di parlarlo benissimo.

E insomma adesso c’è il problema che non si sa come conteggiare i rom scozzesi. Immagino faccia brutto rintracciare uno per uno quelli che si sono dichiarati di etnia rom ma nati in Italia e chiedere scusi lei è proprio rom rom, o è solo di Trastevere? Sono, i nati in Italia, un terzo (milleduecento) sul totale dei tremila e duecento che si sono dichiarati rom. Che facciamo, metà li prendiamo per veri rom e l’altra metà per gente che non parla né l’italiano (essendo romana) né l’inglese, e quindi s’è sbagliata? È un etto e mezzo, che faccio, lascio?

Butta lì in mezzo rigo l’articolo del Times che non è solo la Scozia, anche nel censimento inglese un quarto di quelli che si sono dichiarati rom si sono anche dichiarati nati in Italia: saranno dei Parioli? O sarà perché, si domanda con carità interpretativa il Times, vengono dalla marginalizzata comunità rom che c’è a Roma? Certo, è senz’altro quello, mica che si esprimono a grugniti.

Nel domandarmi cosa sarebbe successo se ad arenarsi nello stesso modo fosse stato un censimento italiano, e i modi che avremmo trovato per dare la colpa non all’analfabetismo dei forestieri ma alla nostra poca inclusività (diamine, se usi per dire un’altra etnia la parola che i romani usano per chiamare la loro città, allora sei xenofobo), suggerirei di sistemare il censimento con una prova che stabilisca una volta per tutte l’etnia di quei residenti in Scozia: chiedetegli se nella carbonara ci vada la panna.

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