Il fascino del trash sta nel mostrare ciò che la cultura vorrebbe nascondere

Settembre 12, 2025 - 18:00
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Il fascino del trash sta nel mostrare ciò che la cultura vorrebbe nascondere

Il trash è un oggetto scivoloso, che sembra sfuggire a ogni tentativo di definizione. Il termine rimanda immediatamente all’idea dello scarto, del pattume, ed è ad esempio soprattutto tale immaginario su cui si è interrogata l’arte contemporanea quando si è trovata a fare i conti con questi resti escrementizi (Vergine, 2006). Trash è qualcosa che rimane, che resta indigerito dopo essere stato processato e masticato, qualcosa che si sputa e si getta via ma che (è forse questa la radice del suo fascino) si rifiuta di essere eliminato del tutto e si impone come presenza, oggetto con cui fare i conti. Come per ogni forma di rifiuto, anche la scoria mediale mobilita tentativi di riciclo, ma – per affrontare proficuamente la traversata in questa discarica dell’audiovisivo è forse necessario cercare un linguaggio comune, compiere uno sforzo per individuare, all’interno di altre categorie, dei punti fermi che ci permettano di capire – per analogia o per opposizione – di che cosa parliamo quando parliamo di trash.

(…) E se fra la cultura cosiddetta alta e il trash, considerato finora una sorta di scoria indesiderata, esistesse un rapporto molto meno banale, che ha più a che vedere con il posizionamento dei testi in rapporto alle condizioni economiche e sociali che con la nobiltà dei contenuti? Se, cioè, fra un numero di “Playboy” e Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione esistessero più continuità che differenze? Il provocatorio interrogativo posto da Simon (1999) in un altro dei testi fondativi degli studi sul trash sottolinea l’importanza di superare il bias culturale che ci accompagna sin dall’età scolare secondo cui esisterebbero oggetti degni di una seria indagine culturale e tutta una serie di manifestazioni deteriori che possono essere, alla peggio, osservate con curiosità o commiserazione.

(…) Una delle voci più autorevoli per quanto riguarda l’elaborazione di una possibile teoria del trash è stata senza dubbio quella di Tommaso Labranca, intellettuale poliedrico e dalla produzione variegata (…) è proprio lui ad aver enunciato i cinque pilastri del trash, caratteristiche che secondo l’autore costituiscono la base di ogni fenomeno esteticamente deteriore: la libertà di espressione, la contaminazione (ibridazione libera dei gusti), l’incongruità (la contaminazione che non segue disegni predeterminati o canoni consolidati), il massimalismo (il riferimento a un modello che però si rivela sbrigativo e raffazzonato) e infine l’emulazione fallita, che forse fra tutti è il pilastro portante.

Non bastasse questo, Labranca arriva a individuare una vera e propria equazione matematica del trash, che riassume così: kS – R = T, da leggersi come segue (Labranca, 1994, p. 11): «k è una costante (intenzione, povertà di mezzi, incapacità […]) che altera lo scopo; S è lo scopo, cioè l’emulazione di un modello; R è il risultato, cioè ciò che si ottiene; T è il trash». Se il valore di T in questa formula matematica è diverso da 0 ci troviamo di fronte al trash, che in questo senso sarebbe la naturale conseguenza di un desiderio imitativo frustrato da condizioni contingenti che lo rendono impossibile.

La definizione labranchiana di trash (…) ha certamente il merito di individuare una costante nelle manifestazioni del trash, vale a dire l’esito spesso ridicolo di un tentativo di rifarsi a un modello ritenuto meritevole di emulazione. Gli esempi che la cultura contemporanea ci offre in questo senso sono effettivamente sterminati; il cinema d’exploitation ci ha consegnato un numero incalcolabile di film pensati per capitalizzare sul successo di alcuni titoli iconici, spesso con esiti smaccatamente trash: è il caso dell’Attacco dei pomodori assassini (John De Bello, 1978), assurdo esempio di sci-fi da Guerra fredda fuori tempo massimo, o dell’Uomo puma (Alberto De Martino, 1980) risposta italiana alla prima ondata di film sui supereroi, dove la scarsità di mezzi tecnici cozza con la pretesa grandiosità dell’operazione. Lo stesso si può dire anche per molte produzioni televisive di dubbia riuscita: soltanto rimanendo nel contesto italiano, si possono ricordare diversi reality show di serie B.

(…) Anche altri generi televisivi non sono sfuggiti alla tendenza alla trashizzazione, come attesta ad esempio il caso del fortunato programma di Barbara d’Urso Live – Non è la d’Urso (2019-21), dove non è tanto l’insufficienza tecnica a generare il trash (la trasmissione ha infatti un valore produttivo decisamente elevato), ma la discrasia fra il setting (che emula i grandi talk show della televisione angloamericana) e i contenuti (che passano senza soluzione di continuità dall’apice della serietà al massimo del gossip, con la presenza in studio di analisti scelti non per la loro competenza sul tema ma per il solo fatto di appartenere al mondo dello spettacolo, in un pantheon che spazia da Francesca Cipriani ad Asia Argento, dal Divino Otelma a Loredana Lecciso).

(…) Il trash abbraccia una varietà di produzioni culturali sterminata, al punto da rendere per sempre obsoleta la distinzione fra cultura alta e bassa; l’idea che l’estetica sia fatta a compartimenti stagni sarebbe in questo senso un generale travisamento della realtà, perché nei fatti il trash scorre al fianco della (e non sotto la) cultura con la C maiuscola.

 

Tratto da Che cos’è il trash di Giuseppe Previtali, Carocci editore, 128 pagine,

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