La cultura pop, e l’iconografia delle proteste del ventunesimo secolo

Settembre 16, 2025 - 14:30
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La cultura pop, e l’iconografia delle proteste del ventunesimo secolo

A pochi giorni dall’anniversario d’indipendenza indonesiana in tutto il paese sono comparse bandiere Jolly Roger con un cappello di paglia, in riferimento al celebre manga giapponese One Piece, realizzato dal fumettista Eiichirō Oda. La bandiera è il vessillo della ciurma di Luffy – il protagonista dell’anime –, e simboleggia libertà, amicizia, e resistenza all’oppressione. Il vicepresidente della Camera Sufi Dasco Ahmad ha espresso la sua preoccupazione nei confronti di tale gesto ritenendolo un segnale di un “movimento sistematico” più ampio e «una minaccia all’unità nazionale, un tentativo coordinato di dividere la nazione». Per queste ragioni, ha minacciando di vietare l’esposizione delle bandiere. Altri politici, al contrario, hanno espresso una visione più moderata, ritenendola una protesta simbolica, più che una minaccia politica. 

La stessa bandiera è comparsa anche nelle proteste in Nepal, durante la rivolta della generazione Z, cominciata martedì 9 settembre in seguito alla decisione del governo di bloccare tutti i social network. Le manifestazioni si sono poi ampliate a una più generale contestazione nei confronti del nepotismo e della corruzione della classe politica, portando alla dimissione del primo ministro nepalese Khadga Prasad Sharma Oli. Tra le folle in protesta è comparsa anche la bandiera dei pirati di One Piece, che ha ispirato i manifestanti ad agire seguendo i valori proposti dall’anime, con una ciurma in lotta contro il “Governo Mondiale” e le ingiustizie da lui create. Nell’anime, questo organo si sarebbe instaurato durante il “Secolo vuoto”, una parte di storia manipolata e volutamente rimossa dal governo perché pericolosa per la salvaguardia della sua autorità. Le foto e i video delle bandiere sventolate durante le proteste – comparse anche a bordo delle navi della Global Sumud Flotilla – sono state condivise sui social network, rendendo la bandiera Jolly Roger un simbolo universalmente comprensibile.

Non è la prima volta che l’immaginario della cultura pop ispira manifestazioni e proteste. Ne è un esempio la maschera di Jocker, la nemesi di Batman, il cui sorriso esagerato e inquietante è comparso in diverse piazze: da quelle del 2019 a Beirut, dove le persone hanno protestato contro le nuove misure di austerità del governo, fino al Cile, a Hong Kong e all’Iraq. «Il film di Todd Philips su Jocker ha un potere davvero evocativo – ha spiegato a France 24 William Blanc, storico e autore del libro Superheroes: A Political history –. Un fenomeno che fa eco a una forma di protesta contro un sistema politico che le persone credano sia inflessibile, e che non ascolta la gente». A marzo 2023 una lunga processione di manifestanti vestite di rosso con un copricapo bianco ha marciato per le strade di Tel Aviv contro una riforma giudiziaria proposta dal governo di Benyamin Netanyahu. Il travestimento si rifaceva a The Handmaid’s Tale, il romanzo distopico di Margaret Atwood pubblicato nel 1987, da cui è stata realizzata l’omonima serie tv statunitense ideata da Bruce Miller, e uscita nel 2017. La storia narra di un futuro prossimo distopico dove la fertilità sarà crollata a causa di malattie e del cambiamento climatico, e per far fronte a queste nuove sfide globali le donne vengono soggiogate, e utilizzate come meri strumenti riproduttivi. L’abito rosso e il copricapo bianco – che nella serie tv erano indossati dalle ancelle – erano stati usati come strumento di protesta già nel 2019, in Alabama, in seguito all’introduzione del Human Life Protection Act, una delle più ristrittive leggi in materia di aborto nel Paese. 

La figura più memorabile nell’ambito delle proteste rimane però la maschera rappresentante il volto di Guy Fawkes, uno dei membri della congiura delle polveri che nel 1605 provò a far esplodere la camera dei Lord, a Londra. Un volto bianco, guance rosse, un sorriso beffardo, pizzetto e baffi all’insù: è V, il protagonista del fumetto V per vendetta, di Alan Moore, diventato simbolo globale di protesta contro l’oppressione, adottata durante le proteste di Occupy Wall Street, durante le primavere arabe, e diventata – tra le altre cose – il volto dell’organizzazione di hacker Anonymous. 

La cultura pop ha influenzato il modo di protestare, e non è strano che oggi in piazza scendano anche persone travestite da personaggi di film, libri e serie tv, creando parallelismi tra la fiction e la realtà. «Le proteste arrivano a seguito di un periodo in cui le persone si sentono escluse, emarginate, attivamente messe a tacere o ignorate in vari modi», ha detto in un’intervista pubblicata su Wired Aidan McGarry, docente di politica internazionale all’Università di Loughborough, specializzato in estetica dei movimenti di protesta. «I manufatti culturali e l’iconografia li fanno sentire parte di qualcosa: è un segno di solidarietà».

Commentando le proteste del 2023 a Tel Aviv contro la riforma giudiziaria, la fondatrice dell’organizzazione Women Building an Alternative Moran Zer Katzenstein in riferimento alla scelta di scendere in piazza con abito rosso e copricapo bianco ha sottolineato l’importanza della rappresentazione visiva delle proteste. «È un messaggio universale: le persone sanno di che cosa di tratta, non devi fornire spiegazioni», ha raccontato in un’intervista a SkyNews. Si tratta di un elemento di risonanza che travalica le culture e le lingue, costruendo un’iconografia della protesta moderna, che avvicina le istanze di Paesi apparentemente molto diversi.

I riferimenti alla cultura pop fungono così da scorciatoie per riuscire a comunicare rapidamente e in modo efficace le motivazioni e le rivendicazioni portate nelle piazze, dove spesso anche l’umorismo gioca un ruolo fondamentale. Secondo Umut Korkut, professore di Politica Internazionale alla Glasgow School for Business and Society intervistato da Wired, gli elementi beffardi dimostrano come l’umorismo possa avere anche un riscontro più serio. «Se si ironizza su una cosa, si dimostra che c’è un’assurdità, e se si riesce a descrivere l’ideologia politica delle autorità come assurda, si sta privando la loro pretesa di legittimità». Ne è un esempio l’immagine di Winnie The Pooh che tiene in mano un foglio bianco, diventato uno dei simboli delle proteste in Cina in seguito alle politiche zero-covid di Xi-Jinping e alla censura online. Il parallelismo tra il protagonista dei romanzi di Alan Alexander Milne e il segretario generale del Partito Comunista Cinese nasce da una foto risalente al 2013 diventata virale, che ha immortalato la presunta somiglianza tra i due, rendendo il personaggio delle storie di Christopher Robin un mezzo per aggirare la censura e deridere il leader cinese. Tutto ciò al governo non è piaciuto. Il nome cinese “Piccolo orso Winnie” è stato bandito da Sina Weibo (il Twitter cinese), mentre la serie di immagini animate è stata rimossa parzialmente dall’app WeChat. Nel 2015 il portale di analisi politica Global Risk Insights ha definito la foto di Xi Jinping durante una parata militare insieme a Winnie the Pooh come l’immagine dell’anno più censurata della Cina.

Utilizzare travestimenti ispirati a personaggi della cultura pop sarebbe inoltre funzionale a tutelare l’identità di chi le indossa, ma anche ad attirare l’attenzione dei media. A maggio di quest’anno, durante le proteste in Turchia in seguito all’arresto di Imamoglu è diventato virale un video ritraente un manifestante travestito da Pikachu, mentre il governo di Erdogan ha cercato in tutti i modi di impedire la copertura delle manifestazioni su media e social network. Secondo alcuni, la persona travestita che ha partecipato alla manifestazione, ha contribuito a diffondere consapevolezza su quanto stava accadendo. Secondo Korkut questi episodi sono escamotage utili ad attirare l’attenzione. «È qualcosa che avreste visto in un contesto di intrattenimento, ma che ora si ritrova in un contesto politico, e quindi la protesta diventa divertente», spiega. 

In un articolo pubblicato sul giornale online The Diplomat, che si occupa di Asia e Pacifico, viene sottolineato invece come i simboli della cultura pop – e in particolare quelli provenienti da Paesi come Giappone, Cina, e Corea del sud – siano stati adottati dalle proteste di tutto il mondo, dando loro una forma di legittimità e un portato emotivo che riesce a parlare a livello globale, e che contribuisce ad alimentare il soft power di questi Paesi, rendendo le proteste contemporanee una questione estetica, mediatica o mediatizzabile.

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