Liste d’attesa infinite: quando la sanità pubblica tradisce i cittadini

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La sanità pubblica italiana continua a inciampare sullo stesso ostacolo che da decenni mina la fiducia dei cittadini: le liste d’attesa infinite e i tempi biblici per accedere a visite specialistiche ed esami diagnostici.
Nonostante leggi, decreti e piattaforme informatiche presentati come soluzioni miracolose, le persone continuano a scontrarsi con un muro fatto di ritardi, agende chiuse e differenze territoriali intollerabili.
Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, ha recentemente inviato una lettera alle Regioni chiedendo di affrontare con serietà un fenomeno che definisce “indegno”. Nel mirino finiscono pratiche scorrette e stratagemmi usati da molte strutture per mascherare l’incapacità di rispettare le tempistiche fissate dalla normativa. Non è una novità: già da decenni i giornali denunciano gli stessi disservizi, segno che i governi si sono succeduti senza mai riuscire a risolvere il nodo cruciale dell’accesso alle cure.
Le promesse del Governo e la realtà quotidiana
Il ministero insiste sul fatto che la nuova legge sulle liste d’attesa sia operativa e che quasi tutti i decreti attuativi siano stati completati (nonostante di recente siano emersi significativi ritardi sulle tabelle di marcia). A supporto, è stata introdotta una piattaforma nazionale in cui le Regioni inviano i dati, così da avere un quadro costantemente aggiornato e individuare i territori più in difficoltà. A ciò dovrebbe aggiungersi il “Cup unico” (qui a titolo esemplificativo linkiamo quello della Regione Campania), cioè un sistema integrato che permetta di prenotare indifferentemente prestazioni in ospedali pubblici o in strutture private convenzionate.
Sulla carta, un meccanismo lineare. Ogni ricetta medica viene contrassegnata con una priorità:
- urgente (entro 72 ore)
- breve (entro 10 giorni)
- differibile (entro 30 giorni)
- o programmabile (entro 120 giorni).
Nella pratica, però, queste scadenze vengono regolarmente disattese. In molte regioni d’Italia, ottenere un esame significa attendere mesi, a volte più di un anno. Una condizione che non solo mette a rischio la salute, ma spinge migliaia di persone verso il settore privato, dove le attese si riducono drasticamente.
La spinta verso il privato
Il risultato è un sistema a due velocità: chi può permetterselo paga di tasca propria, chi non ha risorse sufficienti resta intrappolato in una burocrazia che produce rinvii e frustrazioni. Gli ospedali privati, grazie a una maggiore flessibilità organizzativa e alla possibilità di selezionare le prestazioni più redditizie, garantiscono appuntamenti in tempi rapidi. Al contrario, le strutture pubbliche si trovano sommerse da richieste e costrette a inventarsi soluzioni che spesso sconfinano nell’illegalità.
Una delle pratiche più diffuse è la cosiddetta “chiusura delle agende”: i cittadini provano a prenotare, ma si sentono rispondere che non c’è disponibilità, nemmeno a distanza di mesi. Una procedura vietata dalla normativa, che obbliga gli ospedali a garantire sempre la possibilità di fissare un appuntamento, anche ricorrendo a cliniche convenzionate per smaltire l’eccesso di richieste. Eppure, questa scorciatoia continua a essere la regola in molte regioni.
Irregolarità e complicità interne
La denuncia del ministro Schillaci è dura:
- ci sono professionisti che non inseriscono la propria agenda nel sistema di prenotazione centralizzato
- medici che limitano l’attività nel servizio pubblico privilegiando quella privata in intramoenia
- e dirigenti che non esercitano controlli adeguati.
Le ispezioni dei Nas hanno evidenziato che queste pratiche non sono episodi isolati, ma fenomeni ricorrenti e sistematici. A ciò si aggiunge l’arretratezza di alcuni ospedali che ancora oggi gestiscono le prenotazioni su fogli cartacei, in un’epoca in cui la digitalizzazione dovrebbe essere la regola. Un’anomalia che non solo rallenta il lavoro, ma apre spazi a possibili abusi, discrezionalità e favoritismi.
La disparità territoriale
Un altro elemento che alimenta la frustrazione dei cittadini è la distanza abissale tra le Regioni. In alcune aree del Nord, gli interventi di razionalizzazione hanno dato risultati tangibili, riducendo i tempi e ampliando l’offerta. Al Sud, invece, i ritardi rimangono cronici, aggravando un divario che trasforma il diritto alla salute in una lotteria geografica.
Il ministero evita di stilare classifiche, ma ammette che le differenze sono “inaccettabili”. Ciò significa che in Italia non esiste un reale accesso universale alle cure: a seconda del luogo di residenza, un paziente può ottenere un esame in poche settimane o dover aspettare mesi, con conseguenze pesanti sul percorso di diagnosi e terapia.
Un problema strutturale
Il nodo delle liste d’attesa non è solo organizzativo: affonda le radici nella carenza cronica di personale, nella scarsità di investimenti e nella gestione spesso miope delle risorse. Negli ultimi anni, la pandemia ha ulteriormente aggravato il quadro, saturando ospedali già al limite e costringendo a rinviare visite e interventi non urgenti.
Le promesse di rafforzare il servizio pubblico si sono scontrate con tagli lineari, blocchi del turnover e contratti poco attrattivi per i giovani medici. Di fronte a stipendi più alti e condizioni di lavoro migliori, molti professionisti scelgono di emigrare o di dedicarsi al privato, lasciando il sistema pubblico in affanno.
Il prezzo pagato dai cittadini
Le conseguenze di questa inefficienza si misurano sulla pelle delle persone. Tempi lunghi significano diagnosi tardive, terapie iniziate quando la malattia è già in fase avanzata, famiglie costrette a indebitarsi per accedere rapidamente a un esame salvavita. Un aumento esponenziale dei pazienti che spesso purtroppo diventano terminali, e che rappresentano per strutture e sanitarie e ASP un vero e proprio “peso”, un “fastidio”, un vero e proprio paziente invisibile che viene accantonato e condannato a delle mere cure palliative come la famigerata “terapia del dolore” che molte famiglie purtroppo conoscono bene.
La sanità pubblica, nata per garantire uguaglianza e tutela, rischia così di trasformarsi in un sistema che amplifica le disuguaglianze sociali.
Non si tratta soltanto di disagio: il costo umano e sociale di un ritardo diagnostico può tradursi in peggioramento delle condizioni cliniche, aumento dei ricoveri e spese ancora più alte per lo Stato. Un paradosso che dimostra come l’inerzia istituzionale finisca per produrre danni economici oltre che sanitari.
Una riflessione amara sulle responsabilità
Il quadro che emerge è quello di un fallimento collettivo. Da un lato, le Regioni, responsabili della gestione quotidiana, spesso incapaci di assicurare un servizio uniforme ed efficiente. Dall’altro, lo Stato centrale, che negli anni ha moltiplicato decreti e piattaforme senza mai garantire i controlli e le risorse necessarie.
Il rischio è che ogni nuova legge si riduca a un annuncio privo di ricadute concrete, mentre i cittadini continuano a sperimentare sulla propria pelle le stesse difficoltà di venti anni fa. La sanità pubblica ha bisogno di investimenti strutturali, di un rafforzamento del personale e di una vigilanza severa su chi elude le regole. Ma soprattutto serve la volontà politica di affrontare il problema alla radice, senza scaricare le responsabilità da un livello istituzionale all’altro.
Se l’Italia vuole davvero difendere il principio costituzionale del diritto alla salute, non bastano piattaforme digitali e decreti annunciati con enfasi. Occorre il coraggio di riformare un sistema che oggi tradisce i più fragili, trasformando una visita medica in un privilegio anziché in un diritto.
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