Polemiche su Uno Mattina e sulla RAI: indignazione per frase "come si riconosce un gay?"
lentepubblica.it
Sta facendo particolarmente discutere lo scivolone sugli stereotipi avvenuto ad Uno Mattina, trasmissione storica della RAI: la frase “come si riconosce un gay” mostra infatti come il servizio pubblico rischia di diventare un megafono di vecchi pregiudizi.
Un confronto televisivo apparentemente leggero, nato da un annuncio di lavoro in un salone di parrucchiere, si è trasformato in un caso nazionale capace di scoperchiare nodi irrisolti nella rappresentazione delle persone LGBTQ+ sui media italiani. È accaduto nel corso di Uno Mattina, il contenitore di Rai 1 che accompagna milioni di spettatori nelle prime ore del giorno. A innescare la polemica è stata una domanda della conduttrice Ingrid Muccitelli rivolta agli ospiti in studio: «Un parrucchiere gay ha davvero più manualità, sensibilità e charme rispetto a uno etero?».
L’interrogativo, posto come se fosse una curiosità innocente, ha in realtà dato spazio a un immaginario stantio che lega l’orientamento sessuale a presunte inclinazioni artistiche o professionali. La discussione è stata alimentata dal commento della scrittrice Concita Borrelli, che ha parlato di “radar” per riconoscere una persona omosessuale, citando gesti, ammiccamenti e tratti caratteriali come indizi. Sullo sfondo, un annuncio pubblicato da un parrucchiere di Montesilvano, in Abruzzo, che ricercava esplicitamente un hairstylist “uomo e gay”, come se l’identità sessuale fosse un requisito professionale.
La denuncia dell’attivista Cathy La Torre
In un post sul suo canale Linkedin l’avvocato e attivista per i diritti civili, Cathy La Torre, ha denunciato l’accaduto dicendo che: “[…] come se le persone LGBTQ+ ce l’avessero stampato in fronte o fossero tutte fatte con lo stampino.Un ragionamento che sarebbe inaccettabile in qualsiasi campo, in qualsiasi Paese civile, figuriamoci se accade sulla prima rete del servizio pubblico e si parla di professioni dove, secondo conduttrice e ospiti, le persone omosessuali sono più ‘adatte’, come il parrucchiere o lo stilista.
Ma veramente, nel 2025, siamo fermi a certi stereotipi e pregiudizi? Veramente la Rai permette di mandare in onda certi dibattiti che puzzano di ignoranza e superficialità?“
Il video dell’episodio incriminato e la replica della conduttrice
Qui di seguito il video diventato virale sui social.
Qui di seguito invece la replica della conduttrice dopo le polemiche scatenate dall’episodio.
Dal luogo comune alla normalizzazione del pregiudizio
La sequenza andata in onda ha evidenziato quanto sia fragile il confine tra un dibattito televisivo e la riproposizione di cliché. La domanda della conduttrice, infatti, non si limitava a stimolare un confronto: sembrava piuttosto validare l’idea che la professionalità possa dipendere dall’orientamento sessuale. Un concetto che non solo non ha basi reali, ma che rischia di rafforzare etichette discriminatorie.
Borrelli, dal canto suo, ha sottolineato come nel mondo della moda o della danza la maggioranza sarebbe composta da persone gay. Una generalizzazione che riecheggia vecchi stereotipi, presentati però con il tono di una constatazione. A quel punto la scrittrice ha insistito sull’esistenza di segnali inequivocabili per “riconoscere” l’omosessualità, evocando una sorta di intuito personale.
In studio era presente anche Alessandro Cecchi Paone, volto noto della televisione e attivista per i diritti civili, che ha scelto di non alimentare la discussione. Un silenzio che molti telespettatori hanno letto come disapprovazione, ma che di fatto ha lasciato che a dominare la scena fosse un dialogo intriso di luoghi comuni.
Il peso della comunicazione sul servizio pubblico
Quando episodi simili avvengono su reti commerciali, possono essere interpretati come un inciampo editoriale o una ricerca di spettacolarizzazione. Nel caso della Rai, però, la questione assume un rilievo diverso. Il servizio pubblico ha infatti una missione precisa: garantire una comunicazione rispettosa, inclusiva e attenta alle sensibilità di tutte le fasce della popolazione.
Proporre o tollerare narrazioni che riducono intere comunità a macchiette mina questa responsabilità e tradisce il mandato stesso dell’azienda. Il rischio è che milioni di spettatori interiorizzino, anche senza rendersene conto, messaggi che alimentano discriminazioni. La televisione generalista, ancora oggi, resta un potente strumento di costruzione dell’immaginario collettivo. Per questo, una domanda apparentemente banale può avere effetti sproporzionati: trasformare un pregiudizio in una “verità condivisa”.
La trappola degli stereotipi
Attribuire determinate caratteristiche a un gruppo sociale sulla base dell’orientamento sessuale non è solo un errore comunicativo: è un atto che legittima la discriminazione. Se si accetta che i gay abbiano “più gusto” o “più sensibilità”, si apre inevitabilmente la porta alla convinzione opposta: che chi non corrisponde a quell’immagine sia meno valido. È una dinamica che appare innocua, ma che in realtà perpetua marginalizzazioni.
Gli stereotipi, inoltre, agiscono su due fronti: da un lato imprigionano le persone in ruoli prestabiliti, dall’altro le espongono a giudizi sommari. L’idea che esista un “radar” per riconoscere l’omosessualità, ad esempio, alimenta la retorica del “si vede”, come se la vita privata potesse e dovesse essere decifrata dall’esterno. Una visione che riduce l’identità individuale a gesti o inflessioni, privando le persone della complessità che le caratterizza.
Il cattivo esempio
Non si tratta soltanto di un incidente televisivo, ma di un problema culturale più ampio. Quando il servizio pubblico presta voce a simili affermazioni, legittima implicitamente l’idea che certe convinzioni siano discutibili, quando invece dovrebbero essere riconosciute come infondate. È un cattivo esempio che ricade in particolare sulle generazioni più giovani, spettatori spesso esposti a messaggi contraddittori: da un lato l’invito a rispettare la diversità, dall’altro la continua riproposizione di caricature.
In un Paese in cui il dibattito sui diritti LGBTQ+ è ancora acceso e spesso polarizzato, momenti come quello di Uno Mattina rischiano di frenare un percorso di inclusione già fragile. Se la televisione di Stato non riesce a fare chiarezza, ma alimenta ambiguità, la società nel suo complesso ne risente.
Una responsabilità che va oltre la polemica
Non bastano le scuse a posteriori, né le spiegazioni sulla leggerezza del contesto. La vicenda solleva una domanda di fondo: quale formazione ricevono conduttori, autori e opinionisti sui temi legati alle diversità? Un servizio pubblico moderno non può permettersi di affrontare argomenti così delicati con superficialità. Servono linee guida chiare e percorsi di sensibilizzazione che aiutino chi lavora in televisione a evitare scivoloni di questo tipo.
Allo stesso tempo, il pubblico ha il diritto di chiedere un’informazione che non si limiti a intrattenere, ma che contribuisca a smontare stereotipi, promuovere il rispetto e favorire una reale cultura dell’inclusione. È una sfida che non riguarda solo la Rai, ma l’intero sistema dei media italiani.
Oltre il caso specifico
L’episodio di Uno Mattina è soltanto l’ennesima manifestazione di una difficoltà radicata: il nostro Paese fatica ancora a trattare la questione LGBTQ+ senza scivolare in banalizzazioni. Che si tratti di cinema, pubblicità o programmi televisivi, l’omosessualità viene spesso raccontata attraverso filtri che la rendono riconoscibile solo se conforme a determinati cliché.
Spezzare questo circolo vizioso significa riconoscere che l’orientamento sessuale non è un attributo estetico né un “talento naturale”, ma parte integrante dell’identità personale, che non definisce in alcun modo le capacità professionali o artistiche di un individuo.
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