Storia di come il paesaggio è diventato ambiente (e ci riguarda)

Dall’atto della sua scoperta o invenzione, il paesaggio si è indissolubilmente legato alla sensazione o alla consapevolezza di una significativa risonanza e connessione emotiva tra uomo e ambiente naturale. La storiografia europea è concorde nell’individuare in Francesco Petrarca l’iniziatore di un sentimento della natura. Il poeta ha consegnato in una lettera le emozioni contraddittorie suscitate dall’ascesa al Monte Ventoso, in Provenza, insieme al fratello Gherardo: l’orgoglio della conquista della vetta premiata dalla visione della totalità della natura è venato da un pungente rimorso per la distrazione dai propositi di vita cui si era votato: «Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio». Ma il passo è compiuto: esiste una propensione dell’animo nei riguardi della realtà percepita, se non ancora il nome per designarla.
Questa sensibilità, che anticipa l’uomo nuovo del Rinascimento, radicato nella soggettività e nell’introspezione, risulta sprovvista di ogni connotazione utilitaria, libera da risvolti dogmatici e distante dalle motivazioni che sorreggono l’investigazione scientifica. […] Con l’elevazione del paesaggio a genere pittorico autonomo, alla ricerca del vero perseguita attraverso le prime sperimentazioni en plein air si affiancherà con ruolo egemone una produzione ispirata e sostenuta da un universo simbolico incentrato sugli archetipi del mito della natura: foreste, fiumi, montagne, sublimati in raffigurazioni grandiose.
Il Grand tour, fenomeno culturale di massa che dalla prima età moderna porterà in Italia migliaia di giovani aristocratici, nutrirà tra Sette e Ottocento l’immaginario paesaggistico delle classi colte con gli ideali del Romanticismo, con un’enfasi particolare sull’esperienza interiore, la libertà individuale, l’autodeterminazione dei popoli. Anche nella nostra penisola, questi motivi identitari confluiranno in un desiderio diffuso di indipendenza, alimentando durevolmente il dibattito postunitario, alle prese con l’armonizzazione delle tradizioni legislative preesistenti e con esercizi di mediazione tra posizioni radicalmente diverse in merito alla tutela delle bellezze naturali e del patrimonio storico e artistico della nuova nazione: questa circostanza ritarderà di ben quarantadue anni il varo di una legge organica in materia. In quel periodo, esponenti di spicco della cultura e della politica italiana si impegnano in una narrazione della storia patria in grado di appellarsi a valori del passato in cui la comunità nazionale possa riconoscersi oltre le differenze di lingua e tradizione che ne ostacolano l’identificazione. Ed è a partire dalla constatazione che l’Italia postunitaria è poco più che un’espressione geografica che la conservazione passerà attraverso lo sradicamento fisico degli oggetti, avversato dalla cultura progressista ma giudicato necessario ai fini della costruzione dello Stato borghese.
Tale operazione di deportazione e musealizzazione degli oggetti, nel trascurare la portata dei processi artistici alla scala locale, sembra certificarne l’inadeguatezza ai fini di una rappresentazione corale della nazione, richiamandosi alla trascendenza della dimensione creativa. In questa invenzione di una tradizione comune, la tutela del monumento viene estesa alla cornice ambientale dello stesso, mirando a garantirne idonee condizioni di visibilità attraverso limitazioni agli interventi nel suo intorno immediato. Altrettanto accade per le bellezze naturali, colte in forma di scenario naturale o modificato dall’uomo in senso pittoresco: la ricomposizione di etica ed estetica nel segno della manifestazione dello spirito avviene a detrimento di una comprensione profonda e storicamente situata delle motivazioni funzionali, cultuali e culturali. […]
La Convenzione europea del paesaggio ha segnato per l’Italia un punto di svolta fondamentale nella definizione del paesaggio, imbrigliato nell’aura della bellezza e della straordinarietà che ha caratterizzato la normativa nazionale. Va riconosciuto che lo strumento normativo che avrebbe dovuto accogliere e dare concretezza agli indirizzi dettati dalla CEP, ovvero il Codice dei beni culturali e del paesaggio, ne abbia in parte tradito il significato innovatore, assimilando il paesaggio al patrimonio culturale in una sostanziale continuità con il passato. In tale inerzia al cambiamento hanno giocato un ruolo di peso la particolare traiettoria del paesaggio sul suolo italiano nonché l’esemplarità della sua primazia ed eco internazionale a partire dalla precoce apparizione del termine nel campo delle arti visive in una lettera di Tiziano Vecellio a Filippo II d’Asburgo; progressivamente la parola e la cosa si estenderanno alla dimensione dell’agire umano nel territorio, incorporando gli aspetti di una laboriosa processualità: al di fuori dell’intervento antropico, non vi è paesaggio, ma tutt’al più ambiente, o natura.
Di fatto, la spiccata predilezione per la dimensione estetica e culturale tipica della tradizione neolatina avrebbe ritardato la ricerca di un confronto con altri modi di sentire, in particolare con la nozione di Urlandschaft o Naturlandschaft del mondo germanico, che considera il paesaggio una creazione originaria ed eminente della natura. Nell’ambiente italiano, un importante riferimento per il paradigma che la CEP avrebbe affermato nel nuovo millennio è rappresentato dalla singolare figura di studiosa e docente di Vittoria Calzolari, che ha insistito nella ricerca progettuale sulla «manifestazione sensibile e percepita in senso estetico, del sistema di relazioni che si determina nell’ambiente biofisico e antropico e che caratterizza il rapporto delle società umane e dei singoli individui con l’ambiente e con il territorio, con i siti e i luoghi, in cui si sono sviluppati, abitano e operano».
La CEP si è effusa con particolare vigore sui temi della partecipazione del pubblico, stimolo e reagente fondamentale tra natura e storia sia nella ricerca che nell’approccio progettuale a ciò che definiamo paesaggio, democratizzandolo. Due in particolare sono gli elementi che avvicinano la definizione di paesaggio a quella di spazio pubblico. L’art. 1 della CEP definisce il paesaggio come «una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Nel sottolineare il ruolo attivo delle popolazioni nella determinazione del paesaggio in quanto territorio percepito in maniera specifica e caratterizzata, si individua quel rapporto biunivoco tra uomo-agente e spazio-agito che costituisce uno dei passaggi chiave e di maggiore innovazione della CEP.
Il riconoscimento del paesaggio non è più esclusiva prerogativa dell’artista o dell’esperto, né è compito del solo legislatore designare i paesaggi degni di tutela, ma è anche il portato di un comune sentire. L’art. 2 esprime un ulteriore fondamentale principio della CEP, individuando il campo di applicazione della Convenzione: «la presente Convenzione si applica a tutto il territorio delle Parti e riguarda gli spazi naturali, rurali, urbani e periurbani». Dunque, non vi è più una distinzione fra le “bellezze naturali” e le restanti parti del territorio, ma una visione più inclusiva e democratica del paesaggio, riconoscendo dignità a tutti i contesti, tra cui le aree fortemente antropizzate, come le città e le periferie, e includendovi gli spazi urbani, ovvero gli spazi pubblici come piazze, strade e parchi.
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