Storia di una capinera liberata dalle gabbie

Tornato con nuova forza interpretativa e registica, Capinera approda nella Sala Tre del Teatro Franco Parenti in una nuova versione. Il punto di partenza è il romanzo omonimo di Giovanni Verga: la giovane Maria, costretta in convento contro la sua volontà, ottiene una breve parentesi di libertà, poi si innamora, sperimenta la forza dei sentimenti, per essere infine ricondotta alla clausura, e diventa vittima della follia. Scritto, diretto e interpretato da Rosy Bonfiglio, lo spettacolo riprende quel materiale narrativo e lo trasforma: Maria non è più solo una «novizia tradita», ma una figura che si fa portavoce delle donne di ogni tempo.
Una drammaturgia che rompe la linearità: le gabbie fisiche, emotive e sociali diventano così la lente con cui guardare il presente, sia dentro sia fuori. Le clausure di Maria sono tante — un convento, un corpo, una cultura — e ognuna la rinchiude dietro sbarre invisibili. La protagonista si confonde con Elena, con Alda, diventa “capinera dei nostri tempi”, una voce che risuona, e diventa un coro di resistenza.
Per lo spettacolo, Bonfiglio si affida al corpo come strumento espressivo, la voce si stratifica in loop, la musica elettronica di Angelo Vitaliano plasma le atmosfere, le tensioni, e i silenzi. Una partitura sonora che richiama sonorità vicine a Nils Frahm e Olafur Arnalds, una musica che trasforma l’intimità in uno spazio comune.
Le luci di Stefano Mazzanti contribuiscono a delineare «gabbie di luce» che spalancano feritoie nell’ombra, tracciando traiettorie nel nero scenico. Ogni movimento, ogni segno, ogni silenzio è carico di scarto: il corpo che cerca una via di fuga, che collassa e poi si rialza.
La regia enfatizza l’urgenza di temi che non appartengono più al passato, ma insistono nelle nostre società. Le “gabbie” non sono più solo metafore ottocentesche, ma condizioni reali — sia esse sociali, affettive, culturali — che molte donne ancora vivono.
Maria è una figura-cerniera, un corpo vulnerabile che racconta di un’esperienza condivisa da molte. Il teatro diventa così luogo di incontro, ma anche un terreno di collisione – dove il passato spinge a interrogarsi sul presente.
Questo progetto si inserisce nel percorso di Bonfiglio, che da anni lavora tra sperimentazione, fatta di contaminazione dei linguaggi e di impegno dal basso. Produzioni come Lupa: il canto degli affamati o Il ventre del mare testimoniano la sua attenzione al contesto sociale. Per lei, essere artista non è «andare verso il pubblico», ma portare il pubblico dentro un’esperienza scenica che richiede una presenza attiva: lo spettatore non è passivo, ma un attivo testimone di una trasformazione più ampia, che ricorda al pubblico che non abbiamo bisogno di eroine lontane, ma di territori comunicanti, luoghi reali o immaginati in cui la clausura possa aprirsi, e in cui la follia possa diventare un simbolo di rottura.
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