Affitto mascherato da comodato gratuito: chat di WhatsApp decisive in tribunale

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In Italia non è raro imbattersi in contratti di comodato d’uso gratuito che celano in realtà affitti in nero.
Sulla carta l’accordo prevede che l’inquilino sia soltanto un ospite, senza alcun obbligo di pagamento; nella pratica, però, ogni mese viene versato un canone che non trova riscontro in un contratto di locazione regolare. Una scorciatoia che alcuni proprietari utilizzano per evitare tasse e vincoli normativi, ma che espone entrambe le parti a rilevanti conseguenze legali.
Il Tribunale di Spoleto, con la sentenza n. 284 del 3 giugno 2025, ha avuto modo di affrontare questa prassi elusiva. In particolare, il caso riguardava un inquilino che, pur qualificato come “ospite”, pagava 250 euro al mese. L’aspetto interessante, però, è che a fare la differenza nel giudizio non sono stati documenti cartacei, ma le conversazioni WhatsApp intercorse tra le parti.
Comodato o locazione? Una differenza che cambia tutto
Il comodato (art. 1803 c.c.) si distingue dall’affitto per un aspetto essenziale: la gratuità. Il bene (immobile o mobile) viene concesso senza corrispettivo e deve essere restituito al termine del periodo concordato. Diverso è il caso della locazione, regolata dalla legge n. 431/1998, che prevede il pagamento di un canone e una durata minima predeterminata (4+4 o 3+2 anni).
Quando viene stipulato un “finto comodato”, ma di fatto esiste un obbligo di pagamento, la legge qualifica l’accordo come contratto simulato: il documento scritto serve solo a mascherare un vero affitto. Una pratica che comporta l’evasione delle imposte e l’aggiramento delle tutele previste per l’inquilino.
Il caso deciso a Spoleto
Nel caso oggetto della pronuncia del Tribunale, la proprietaria aveva chiesto la restituzione immediata dell’immobile sostenendo di averne bisogno per la madre. L’inquilino, però, ha ribaltato la situazione, dimostrando che il contratto di comodato costitutiva in realtà una simulazione, in quanto egli, ogni mese, pagava puntualmente un canone di 250 euro. Il giudice ha dato, dunque, ragione all’inquilino e ha dichiarato nullo il comodato, riconoscendo la sussistenza di una vera e propria locazione.
La disciplina della simulazione è contenuta nell’art. 1414 c.c., il cui comma 2 dispone che “Se le parti hanno voluto concludere un contratto diverso da quello apparente, ha effetto tra esse il contratto dissimulato, purché ne sussistano i requisiti di sostanza e di forma.”.
Di conseguenza, il rapporto è stato ricondotto alla disciplina ordinaria prevista per gli affitti abitativi.
Perché le chat sono state decisive
Le conversazioni su WhatsApp tra le parti contenevano riferimenti inequivocabili a concetti tipici della locazione, come “canone mensile” e “caparra”. A queste prove digitali si è aggiunto anche un bonifico bancario, che ha reso ancora più solida la ricostruzione.
Dal punto di vista giuridico, messaggi e chat hanno pieno valore probatorio: l’art. 2712 c.c. riconosce ai documenti informatici efficacia in giudizio, salvo che la controparte non ne contesti in modo preciso autenticità e provenienza. Nel caso concreto, la proprietaria non è riuscita a invalidarne la forza dimostrativa.
Testimoni e principio di prova scritta
Decisive per la risoluzione della controversia sono state anche le testimonianze, tra cui un soggetto che aveva prestato denaro all’inquilino proprio con lo scopo di pagare il canone di locazione dell’immobile.
Sebbene nell’ambito della simulazione contrattuale la legge limiti fortemente il ricorso alle testimonianze, l’art. 2724 c.c. prevede una deroga quando esiste un “principio di prova per iscritto”. Nel procedimento in esame, proprio le chat e i pagamenti bancari hanno rappresentato questo presupposto, aprendo così la strada all’audizione di testimoni.
Le conseguenze pratiche
Dopo l’accertamento della simulazione, il comodato è stato considerato nullo e il contratto è stato automaticamente ricondotto a una locazione a canone libero 4+4. In altre parole, ciò significa che l’inquilino ha ottenuto il diritto a rimanere nell’abitazione per la durata legale, pagando il canone di 250 euro pattuito. La richiesta della proprietaria di liberare subito l’immobile è stata quindi respinta.
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