Come la frutta e la verdura invendute sono diventate capi di alta moda

All’ora di pranzo, quando il mercato cittadino chiude e sui banchi rimangono a cuocere sotto il sole la frutta e la verdura che non ha voluto nessuno, ecco che inizia il loro passaggio da rifiuto a tessuto. Mele ammaccate, banane mature e barbabietole al principio di scioglimento vengono prese da giovani fashion designer e portate nella propria cucina. Non un laboratorio di moda, ma un ammasso di pentole, teglie chilometriche e cucchiaini. Questo è il mondo della ventunenne francese Romane Poret da quando ha scoperto di poter realizzare capi d’abbigliamento alla moda con gli scarti alimentari.
Gonne, giacche in similpelle, ma anche borse e orecchini. Poret sfoglia i bozzetti sui quali disegna da quando è bambina e sperimenta con tecniche e materiali insoliti, come la bioplastica. Non bisogna farsi ingannare dal nome: il materiale impiegato è prodotto fondendo ingredienti naturali e biodegradabili come l’agar-agar, l’alga spirulina o l’amido di mais. Dopo aver fuso i materiali di scarto, si passa all’asciugatura, quindi il composto è versato in una teglia e messo al sole. «L’obiettivo è quello di non impiegare energia, ecco perché non uso forni o disidratatori», spiega la studentessa dell’Accademia di Belle Arti. Una volta asciugata, la bioplastica è pronta per essere modellata – se tutto è andato bene – sorride Romane.
Ci vogliono pazienza, creatività e molti tentativi per ottenere colore e consistenza adatti. A volte capita che il composto sia rimasto troppo a lungo ad asciugare e s’indurisca, altre volte sono sfumature cromatiche e texture a non convincere. Ha provato con mango, zucchine, cetrioli e agrumi, ma il prodotto che finora le ha dato maggiore soddisfazione è la barbabietola, con la quale ha realizzato il suo primo progetto.Un set completo di giacca – simile a quella vintage di suo nonno -, gonna e borsa. E per finire, anche un paio di orecchini e un cravattino. Per realizzarlo, ha impiegato circa una settimana. Il processo creativo è lungo, soprattutto se si vuole sperimentare.
C’è chi, su TikTok, la segue da sempre e chi ha iniziato recentemente, quando i suoi video sono andati viriali. Sui social, Poret condivide tentativi andati a buon fine ed errori, mostrando un lato della moda inedito, più lento. L’obiettivo è quello di avvicinarsi a una produzione il più responsabile possibile, dal momento che la bioplastica può essere prodotta parzialmente o interamente da risorse rinnovabili. Oltretutto, è un’ottima alternativa alla plastica tradizionale.
L’intuizione di lavorare sulle fibre vegetali le è venuta sfogliando un ricettario sulle bioplastiche, “Bioplastics Cook Book” di Margaret Dunne, letteralmente un volume che potrebbe essere confuso accanto ai soliti manuali di cucina. Pare che gli insegnamenti contenuti al suo interno abbiano influenzato, appena qualche anno fa, un’altra designer (e chissà quante altre) a New York, Caroline Zimbalist.
Nella storia di Caroline Zimbalist, menzionata anche nella categoria under 30 di Forbes, non ci sono barbabietole e banane, ma alghe. Tra le sue creazioni, gioielli, vasi colorati e incantevoli vestiti che, quest’anno, sono stati protagonisti alla New York Fashion Week. Dalla lettura del libro è passato tanto tempo e, ora, Caroline ha lavorato alla propria ricetta, a base di alga spirulina, ed è in attesa del brevetto.
Anche in questo caso, non si tratta di moda vegana, ma tutto è biodegradabile. Ai fornelli, mescola in una pentola amido di mais e un addensante a base di alga spirulina, poi riversa il tutto in degli stampi di silicone. Una volta indurito, il composto viene cucito minuziosamente e trasformato in un capo unico, da vendere sul proprio sito o da esporre in una galleria d’arte negli Stati Uniti. Solo un anno fa, invece, una delle sue creazioni andava in scena, indosso alla cantante Chappell Roan.
All’agenzia di stampa Associated Press, Zimbalist ha raccontato che far indossare i suoi vestiti a star di successo disincentiva l’utilizzo di capi fatti con combustibili fossili, che sono altamente inquinanti per il pianeta. Nella moda, i ritmi sono accelerati e il fast fashion fa un uso massiccio di fibre sintetiche, ottenute dal gas e dal petrolio.
Secondo Textile Exchange, un’organizzazione no-profit che promuove la sostenibilità nel settore tessile e dell’abbigliamento, oltre il sessanta per cento degli indumenti proviene dal poliestere. I capi realizzati in questo modo rilasciano microplastiche durante il lavaggio e ciò è dannoso per l’organismo.
Ma qualcosa si sta muovendo, e non solo dal basso. Già colossi della moda come Adidas ed Hermès hanno sperimentato soluzioni alternative nella loro produzione, utilizzando il micelio, l’apparato riproduttivo dei funghi, dal quale è facile ottenere un effetto pelle verosimile. C’è chi è dubbioso sull’adozione dei biomateriali da parte dei grandi marchi poiché i costi richiesti sarebbero molto più alti rispetto alla produzione su larga scala, cui sono soliti. Senza contare che solo qualche anno fa, in occasione della Cop26, vertice sul clima delle Nazioni Unite, Fulvia Bacchi, direttrice generale di Unic (Unione nazionale industria conciaria), aveva definito «fuori da ogni logica» la riconversione completa del settore.
L’industria della moda è ancora lontana da un cambiamento significativo, ma come suggerito da Zimbalist, si può innescare una rivoluzione dalle piccole cose, partendo per esempio dalla sostituzione di bottoni e cerniere, usualmente realizzati in plastica tradizionale.
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