L’Ucraina alla prova dei capricci di Trump e dell’eredità di Merkel

Augurandomi di sbagliare in entrambi i casi, la mia prima impressione è che la svolta della politica americana sull’Ucraina rischi di durare ancor meno della pace in Medio Oriente, dopo l’ennesima telefonata-fiume tra Donald Trump e Vladimir Putin, ovviamente andata benissimo, giusto alla vigilia dell’arrivo di Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca.
Il primo risultato sembra essere una marcia indietro sulla consegna dei famosi missili Tomahawk all’Ucraina e l’annuncio di un nuovo incontro tra Trump e Putin, questa volta nella Budapest di Viktor Orbán, il suo principale cavallo di Troia in Europa (suo di Putin, s’intende, ma forse anche di Trump). Inutile azzardare previsioni, se non che continueremo a fare avanti e indietro, su entrambi i fronti, russo-ucraino e mediorientale, ancora per un bel po’ di tempo, verosimilmente.
D’altra parte, le recenti dichiarazioni di Angela Merkel, non bastasse quanto rivelato dallo Spiegel circa i progetti di collaborazione militare e persino di esercitazioni congiunte tra esercito tedesco e russo elaborati ai suoi tempi, e abbandonati solo dopo l’occupazione della Crimea nel 2014, ci ricordano che in Europa abbiamo poco da fare gli schizzinosi sugli ondeggiamenti di Trump.
Dei molti esempi che si potrebbero citare, in tema di leader europei che hanno mostrato scarsissima lungimiranza nel loro rapporto con Putin prima, e non hanno dato miglior prova dopo l’invasione dell’Ucraina nel ’22, il caso dell’ex cancelliera tedesca è certo il più eclatante. Die Zeit le dedica un articolo dal titolo quasi straziante: «È ancora la nostra Merkel?».
Se infatti l’incapacità di riconoscere il minimo errore nella sua passata gestione dei rapporti con la Russia non è più una notizia, colpiscono le recenti dichiarazioni in cui di fatto ha attribuito parte della responsabilità della guerra ai paesi baltici e ai polacchi che non avrebbero sostenuto il suo tentativo di rilanciare «un nuovo formato in cui noi, come Unione Europea, potessimo parlare direttamente con Putin». Affermazioni tanto più imbarazzanti perché pronunciate in Ungheria, dove si trovava per presentare il suo libro di memorie, «Libertà» (in cui per la verità aveva scritto esattamente le stesse cose, praticamente con le stesse parole), accolta da Orbán con tutti gli onori.
Una scelta che ha scandalizzato molti, per ovvie e sacrosante ragioni, cui non basta replicare, come ha fatto lei, che «bisogna parlare anche con chi la pensa diversamente». In ogni caso, per il suo prossimo libro almeno le suggerirei di evitare titoli enfatici come «Libertà», per ripiegare su qualcosa di più prosaico come «Nei limiti del possibile». Se questi sono i campioni della democrazia liberale europea, è difficile essere ottimisti sul suo futuro.
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