Abolire le Regioni e potenziare le province, per migliorare l’Italia

Novembre 27, 2025 - 15:00
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Abolire le Regioni e potenziare le province, per migliorare l’Italia

In Italia la rassegnazione non passa mai di moda. Diamo per scontate le code negli ospedali, le buche per strada, i cantieri infiniti, le scuole che cadono a pezzi; così come l’astensione alle elezioni regionali. Ma quando meno della metà degli elettori vota per eleggere il consiglio regionale, non è semplice disaffezione: è un giudizio sull’utilità di quel livello di governo. Le venti Regioni sono imperfette e sempre meno funzionali. La Costituzione le ha previste fin da subito come risposta al fascismo, per rafforzare le autonomie locali e bilanciare il peso dello Stato centrale, ma questi enti non hanno superato la prova del tempo e mostrano limiti che non si possono più ignorare.

Un motivo c’è. E forse più di uno. Negli anni le Regioni hanno acquisito sempre più spazio nel programmare il welfare locale, gestendo direttamente la sanità, che assorbe tra il 65% e il 75% dei loro bilanci. I diritti sanitari restano nazionali, stabiliti dallo Stato attraverso i livelli essenziali di assistenza (Lea). Ma la qualità e la tempestività delle cure cambiano sensibilmente da una Regione all’altra, e i costi sono sempre più alti. Tra il 1998 e il 2022 l’indebitamento regionale complessivo è cresciuto del 75%, con incrementi molto più marcati in Campania +347%, Lazio +270% e Calabria +241% e livelli di debito superiori ai dieci miliardi di euro in Piemonte e Lombardia.

Mentre le Regioni assumevano un ruolo sempre più centrale, il livello amministrativo che per oltre un secolo ha tenuto insieme il nostro Paese veniva progressivamente svuotato: le Province. Non sono un’eredità del Fascismo, come spesso si pensa: nacquero nel 1859 con la legge Rattazzi per ridisegnare il Regno di Sardegna dopo l’annessione della Lombardia e furono estese via via all’Italia unita. Una struttura più consona alla geografia reale del paese, per reti economiche, flussi sociali e spostamenti quotidiani che è rimasta salda nel tempo, attraversando monarchia, dittatura e una parte della Repubblica.

Poi, negli anni Settanta sono state istituite le Regioni ordinarie. Da lì in avanti il loro peso non ha fatto che crescere, soprattutto dopo la riforma del Titolo V del 2001 che ampliò le competenze locali e spinse il Paese verso un regionalismo sempre più marcato che ha schiacciato le Province: servivano ancora, ma contavano sempre meno. Il colpo finale arrivò nel 2014, con la legge Delrio, varata come risposta razionale all’onda irrazionale dell’antipolitica. Le Province furono trasformate in enti di secondo livello: niente elezioni dirette, organi ridotti, bilanci tagliati. La riforma costituzionale del 2016 le avrebbe eliminate del tutto, ma il referendum fallì e quel livello intermedio dello Stato è rimasto lì: svuotato, ma ancora in piedi.

Da allora le Province vivono come uno zombie istituzionale: esistono secondo l’articolo 114 della Costituzione, ma non possono esercitare fino in fondo il loro ruolo. Devono gestire ancora funzioni essenziali: circa 130 mila chilometri di strade, tutte le scuole superiori, la pianificazione territoriale e ambientale. Ma lo fanno con organici dimezzati, fondi insufficienti e senza legittimazione diretta.

A Lecce, durante l’assemblea generale dell’Unione Province d’Italia, Sergio Mattarella ha lanciato un monito per interrompere questo «eterno limbo» e la «transizione incompiuta» delle Province. Il ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, ha risposto all’appello del presidente della Repubblica, promettendo di «trovare la via, e anche le risorse, per recuperare alle Province tutte quelle deleghe che servono a ridarle un ruolo che, la Città metropolitana ha dimostrato di non essere capace di gestire». Stando a queste parole, la soluzione che il governo sembra accarezzare è la più comoda: reintrodurre l’elezione diretta dei presidenti di Provincia. Una toppa, non una riforma.

E se invece di moltiplicare livelli e ceti politici iniziassimo a toglierli davvero? E se la vera semplificazione fosse abolire le venti Regioni e restituire centralità alle 76 Province delle Regioni a statuto ordinario? Per cominciare. Una riforma sulla carta impossibile: bisognerebbe riscrivere pagine importanti della Costituzione e nessuna maggioranza sarebbe disposta a investire il suo capitale in questa battaglia politica. 

Ma abbandoniamoci a questa pazza idea, per un momento. La geografia sociale dell’Italia non coincide quasi mai con quella istituzionale. Basta guardare la Toscana, dove la Lunigiana guarda culturalmente alla Liguria o il Piemonte, dove l’Ossola ha più affinità con la Svizzera che con le Langhe. Nel Lazio convivono Roma, metropoli europea da quattro milioni di abitanti, e Rieti, che ha la densità abitativa di un territorio montano dell’Abruzzo interno. Ci sono coppie di città che, pur nella stessa Regione, appartengono a mondi economici opposti: Pesaro e Macerata nelle Marche, Belluno e Rovigo in Veneto, Piacenza e Rimini in Emilia-Romagna. E ci sono territori che invece integrano bene le loro economie, pur appartenendo a Regioni diverse: come Verona e Mantova. 

Le Regioni governano territori troppo grandi per conoscere i problemi e troppo eterogenei per affrontarli allo stesso modo. Questo perché sono state pensate a tavolino dai padri costituenti, basandosi su costruzioni politiche vaste e spesso incoerenti al loro interno, derivate dai “compartimenti” del 1864: una ripartizione statistica del Regno d’Italia che metteva insieme Province contigue solo per facilitare censimenti e rilevazioni; non per rappresentare comunità reali o economie integrate. Per capirci: erano contenitori burocratici, non territori vivi. Per capirci ancora meglio bastano due parole di un importante saggio del geografo Lucio Gambi: «irrazionale continuità». E persino un giurista non antipatico al governo Meloni, Sabino Cassese, ha ricordato più volte che undici Regioni italiane hanno una popolazione inferiore a quella del Comune di Roma e il loro numero dovrebbe quantomeno essere razionalizzato.

Le Province, invece, sono abbastanza grandi da gestire servizi complessi e abbastanza piccole da farlo con cognizione di causa. Lo mostrano bene alcuni studi: un’analisi pubblicata quest’anno su Scientific Reports  segnala che il trasporto pubblico locale funziona meglio quando è organizzato su scala provinciale. E uno studio di Eduardo Parisi dellanno scorso ricorda che i servizi pubblici a rete, come acqua, rifiuti e mobilità, trovano i loro bacini ottimali in aree sub-regionali che assomigliano molto più alle Province che alle Regioni.

Come osservava il costituzionalista Beniamino Caravita di Toritto, in Italia ci sono più di settemila Comuni sotto i diecimila abitanti: una frammentazione che rende necessario un livello intermedio capace di occuparsi delle funzioni che i Comuni, da soli, non riuscirebbero a gestire. Altri lavori, come quelli del geografo politico Giuseppe Bettoni, ricordano che le Province non sono un accidente storico, ma corrispondono a territori omogenei, riconoscibili e funzionali. La Brianza, il Salento, la Marca trevigiana, la Terra di Bari, solo per fare qualche esempio, sono realtà che esistono da secoli, e che nessuna Regione è riuscita a sostituire in modo credibile. 

La sanità non può continuare a essere gestita in venti modi diversi, anzi ventuno e i territori hanno bisogno di un livello intermedio più adatto alle loro esigenze. Fingere di non vedere tutto questo è parte del problema. La soluzione non è un’idea nuova o radicale: è un ritorno a ciò che l’Italia ha conosciuto per più di un secolo. Se dobbiamo morire di nostalgia, scegliamo quella giusta. L’abolizione delle Regioni è una riforma tabù che non si realizzerà mai, ma è forse ciò di cui il nostro Paese avrebbe più bisogno. 

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